Sono quasi 1,5 milioni i profughi siriani in Libano su una popolazione locale di 4milioni e mezzo di persone. Un Paese, quello dei Cedri tanto musulmano quanto cristiano, grande come l’Abruzzo che ospita il più alto numero di rifugiati pro capite al mondo (contando anche i 260-280 mila palestinesi) e che oggi risulta profondamente segnato dalla crisi economica, dallo stallo politico e da un contesto internazionale di tensioni crescenti. Questo il quadro della situazione in Libano, dove per i siriani le condizioni di vita sono sempre più allarmanti.
Stando a una ricerca condotta dall’Unchr nel 2018, infatti, il 76 per cento delle famiglie provenienti dalla Siria vive sotto la soglia di povertà con meno di 3,84 dollari statunitensi al giorno. L’insicurezza alimentare coinvolge il 91% dei siriani. Solo il 19% delle famiglie è in possesso del permesso di residenza legale per tutti i suoi componenti. Ottenere questo documento è diventato quasi impossibile: costa troppo, serve un’occupazione e una lettera di accompagnamento di un datore di lavoro. Senza il “permesso di soggiorno”, però, non si può avere accesso ai servizi pubblici, alle cure mediche, non si può ricevere un certificato di nascita o semplicemente muoversi senza il rischio di venire arrestati ai checkpoint dell’esercito libanese. Il 74 per cento dei siriani in Libano non ha una residenza legale e solo il 17% dei genitori tra i rifugiati riesce a completare tutte le fasi per la registrazione della nascita dei figli. Raid e arresti negli insediamenti informali sono all’ordine del giorno, così come le tensioni tra siriani e comunità locale.
«Il clima è molto teso, gli episodi di razzismo sono frequenti. I siriani sono diventati il capro espiatorio delle difficoltà che sta attraversando il Paese che ha un tasso di disoccupazione in continua crescita – spiega Caterina Ferrua di Operazione Colomba, 27 anni, che abbiamo raggiunto al telefono mentre si trova nel villaggio di Tel Abbas a soli 4 chilometri dal confine con la Siria -. In quest’ultimo periodo l’esercito libanese sta arrestando un’ottantina di siriani al giorno. La gente è spaventata». Il Libano, infatti, non ha firmato la Convenzione di Ginevra e, quindi, non riconosce lo status di rifugiato. Ciò si traduce nella mancanza di campi di accoglienza strutturati e per il governo i siriani sono solo “sfollati” che prima o poi torneranno a casa loro. Sfollati che vivono nelle tende, di plastica e cartone, o nei garage. «C’è anche chi vive in piccoli appartamenti, soprattutto nei centri urbani, ma è una minoranza. E i costi dell’affitto sono davvero molto alti – continua Caterina -. Per legge i siriani possono lavorare solo nel settore delle costruzioni e in quello agricolo. Il lavoro nero, di norma sottopagato, è sempre più diffuso. Ci sono persone che riescono a lavorare per dieci giorni di fila, ma che poi vengono retribuite solo per tre. È in forte aumento anche il fenomeno dei bambini che vanno a lavorare nei campi». Operazione Colomba, corpo di pace della comunità Papa Giovanni XXIII, è impegnata in Libano dal 2013. La sua presenza è fissa nel campo di Tel Abbas, dove vivono un’ottantina di persone, e nel campo poco distante che ospita altri 200 siriani. «Viviamo con loro nelle tende, condividendo la quotidianità – dice Caterina -. A chiederci di restare quattro anni fa sono stati proprio i siriani impauriti dalle minacce ricevute dai libanesi. Di fatto la nostra presenza ha aiutato e ancora aiuta a mantenere basso il livello di tensione tra rifugiati e popolazione locale. E il vivere il campo è diventato indirettamente fonte di sicurezza anche per i libanesi cristiani che a causa dell’Isis vedevano in ogni siriano un potenziale terrorista». Il corpo di pace della Papa Giovanni XXIII di stanza a Tel Abbas, da allora, opera in tutta la regione di Akkar (nel Nord del Libano) aiutando i profughi nelle necessità di tutti i giorni e favorendo le relazioni tra siriani e libanesi. «Siamo l’unica organizzazione che vive stabilmente in un campo profughi e ciò ci permette di intervenire tempestivamente rispetto alle esigenze delle persone – prosegue Caterina, che ora è in Libano assieme ad altri 4 volontari di Operazione Colomba -. Accompagniamo i rifugiati in ospedale, oppure all’Onu che è di base a Tripoli. In questo modo evitiamo che vengano fermati dai soldati ai checkpoint e, poi, arrestati. Passiamo molto tempo con i bimbi, organizzando momenti di svago e incontro».
Per i bambini, all’incirca 500 mila (ma i dati non sono precisi) il governo ha istituito delle scuole formali che si affiancano a quelle informali organizzate dalle varie ong presenti nel Paese. «Lo Stato ha deciso, però, di tener separati i bimbi siriani da quelli libanesi con due orari scolastici ben diversi. Alcune strutture funzionano bene con un programma didattico adeguato, in altre invece l’offerta formativa per i figli dei rifugiati è inesistente. Le maestre, poi, sono le stesse sia per siriani che per i libanesi e molto spesso sono costrette a lavorare per 10 ore di seguito con ovvie conseguenze sulla qualità dell’insegnamento» precisa la volontaria di Operazione Colomba. Il corpo di pace della Papa Giovanni XXII, inoltre, collabora anche con il progetto dei corridoi umanitari della Chiesa Valdese e della Sant’Egidio che nel 2017 ha permesso a mille siriani di arrivare in Italia in sicurezza. «Segnaliamo le situazioni difficili o quelle di persone che facilmente potrebbero integrarsi in un Paese come l’Italia e le mettiamo in contatto con i referenti del progetto – dice Caterina -. Ogni giorno, qui in Libano, riceviamo almeno due richieste di persone che ci implorano di aiutarle a cambiare vita e ad andarsene in Italia. Le condizioni dei siriani sono davvero allarmanti, servirebbero più aiuti dalla comunità internazionale. I riflettori sulla Siria, però, si sono abbassati e e così i fondi destinati a queste persone, ingiustamente, sono venuti meno».
Condizioni allarmanti come quelle che riguardano la salute dei rifugiati che vivono in vere e proprie tendopoli. Per offrire delle cure sanitarie ai siriani in Libano, lo scorso ottobre, nel Vicentino è nato un gruppo informale di medici che una volta al mese presta servizio nei campi vicini a Tel Abbas. «Ci chiamiamo “Medici fra le tende” e cerchiamo di rispondere alle necessità di chi visitiamo. C’è chi ha bisogno di medicine per l’influenza, chi vive con il sacchetto per l’intestino dopo essere stato colpito dalle bombe e ha bisogno di cure costanti. Chi ha dolori alle articolazioni, chi è incinta. Facciamo quello che riusciamo – dice Barbara Toniolo, medico di base di Valdagno che è tra le fondatrici del gruppo e che il giorno di Pasqua è ripartita per il Libano -. Siamo circa una ventina. Non solo medici, ma anche fisioterapisti, infermieri, ostetriche. La nostra è una goccia nel mare, ma siamo convinti che in quest’epoca non si possa più restare indifferenti di fronte a certe sofferenze».