L’invidia del like ai tempi di Facebook. “Filosofia in Agorà”: sui sentimenti socialmente buoni del Natale

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A Natale siamo tutti più buoni
A Natale siamo tutti più buoni

A Natale siamo tutti più buoni, ma una cosa incattivisce tutti: la possibilità di avere meno credito degli altri. Mi spiego meglio: c’è una difficoltà ad accettare che le nostre opinioni e i nostri punti di vista non ricevano il necessario riconoscimento da parte degli altri…anche su Facebook. Perché se – a parole – siamo la società della postverità, in cui cioè ogni cosa è interpretazione e non si può pretendere l’oggettività nei giudizi, nei fatti siamo intimamente convinti che la nostra lettura del mondo sia quella giusta e viviamo con difficoltà il fatto che tutti gli altri non arrivino a questa ovvia conclusione.

I social poi ci hanno dato uno strumento di misurazione straordinario per verificare l’adesione degli altri alle nostre vedute: i like. La gara “a chi ce l’ha più lungo” (il seguito, s’intende) si combatte così: a forza di like e visualizzazioni.

Anche per noi che scriviamo su Agorà questi indicatori sono importanti: quando si costruisce un titolo per un articolo, si usano delle strategie per ottenere questi risultati, si scelgono le fotografie che catturano l’attenzione e si inseriscono i tags che permettono di essere trovati tra i primi risultati su Google.

Può capitare, però, che le posizioni e le idee di qualcun altro siano più condivise delle nostre, che una lettura del mondo diametralmente opposta a quella che proponiamo abbia maggiore risonanza e fama, può succedere insomma che tutto il successo e il bene che speriamo per noi vada ad un altro e che la cosa ci infastidisca. Quando questo avviene stiamo facendo esperienza dell’invidia.

Uno dei più attenti analisti delle passioni umane, Spinoza, diceva che l’invidia è «l’odio stesso, in quanto lo si considera disporre l’uomo a godere del male altrui, e a rattristarsi, invece, del bene altrui»[1].

L’invidia, quindi, è una forma di odio che ci depotenzia, intristendoci quando vediamo che un altro ottiene un bene che vorremmo per noi. Ma cos’è questo bene che desideriamo e non abbiamo?

È il riconoscimento del nostro punto di vista come valido, delle nostre opinioni come vere.

Eppure questo sentimento non è così antisociale come sembrerebbe: nella pólis greca c’era chi, come i sofisti, insegnava un’arte, l’eristica, che era l’arte del disputare (in greco ἐριστική τέχνη) attraverso battaglie dialettiche volte a far prevalere le proprie opinioni, indipendentemente dal loro contenuto di verità. E questa era una competenza fondamentale per partecipare alla vita della comunità: il politico doveva convincere l’assemblea per ottenere voti; l’avvocato doveva convincere il giudice a cui si rivolgeva nel perorare una causa; la democrazia stessa si basava e si basa su questa pratica.

Queste battaglie verbali sono la spia che la vita umana è caratterizzata dal conflitto e, in ogni scontro, c’è un vincitore ed un perdente. Il perdente sperimenta l’invidia perché si scopre limitato, fallibile, in ultima istanza umano.

L’invidia, infatti, non appartiene a chi è perfetto: il Dio della Bibbia non invidia, lo fa il diavolo. Addirittura «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 2, 24): e cosa avrà mai avuto da invidiare all’uomo? Il suo essere uomo.

Se è così, vale la pena essere invidiosi a Natale, quando anche Dio si fa uomo, per un like in meno?

[1] B. Spinoza, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2010, p. 1351.


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a cura di Michele Lucivero

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