Vicenza è una città che conserva come Mantova, Ferrara, Parma, Piacenza, per fare dei paragoni, una suggestione tipica delle piccole città, “teatrali” ma vivibili. Quattro secoli e mezzo fa Andrea Palladio ne fece una città ad esatto specchio delle sue ambiguità: ionica, dorica, rinascimentale. Laica ma anche controriformista, con cappelle tempietti, colonnati. Una città scissa in due, dunque, che ha mantenuto tuttora questa scissione, dove il cattolicesimo scorre nelle vene, ma dove i costumi si laicizzano; dove forte è l’iniziativa privata ma quella pubblica permane, sia pur flebile.Una città ancora ricca, ma con una povertà relativa ed assoluta in aumento; la nona per vivibilità in Italia, nel 2015. Una città che, probabilmente non ama essere governata per grandi progetti, insofferente verso istituzioni dirigiste e che ha prodotto una classe dirigente, ai vari livelli, che non è né meglio né peggio, del tessuto che la esprime. Semplicemente ne è lo specchio.
Vicenza spicca, soprattutto negli ultimi 30 anni, per una sorta di piacere, un po’ “decadente” all’autodenigrazione: ci si lamenta del suo provincialismo, del grigiore culturale, dell’assenza di contenitori, della marginalità rispetto agli assi portanti dello sviluppo veneto, della sua non leadership sull’intera provincia di cui è capoluogo.
E non si vede il teatro, costruito senza clamori (e che non attira sostegni economici…), il restyling affascinante della Basilica e la sua apertura a mostre di indubbio valore,il proliferare silenzioso di molte iniziative culturali, il buon funzionamento delle sue strutture sanitarie e sociali reso possibile da un “capitale umano” che mantiene il culto dell’essere utile agli altri.
Anche questa è una delle scissioni di Vicenza.
C’è un Io antico di questa città dove convivono culto della solidarietà e chiusura nel proprio territorio, ripiegamento su di sé e sul passato e, al tempo stesso, capacità imprenditoriale di aprirsi al nuovo, di accettare le sfide economiche di un mondo globale, di penetrare in nuovi mercati economici.
Chiusa nelle sue mura, bellissime e fragili, Vicenza sa pensare “globalmente”, sa adattarsi alle grandi sfide economiche grazie a quella innata abilità dei propri imprenditori, grandi e piccoli, che lavorano instancabilmente; sa produrre una ricchezza, oggi meno redistribuita di ieri, sa accogliere ed accompagnare chi è più debole, magari con qualche mugugno.
Ma quando deve pensare collettivamente ad organizzare gli strumenti per “difendere” il proprio benessere di fronte alle sfide importanti della modernità odierna (le fusioni delle aziende pubbliche da ponderare bene, il credito ed il risparmio da ricostruire, i trasporti viari e ferroviari da rafforzare, la giustizia civile da garantire) ecco emergere quella parte del suo “Io antico” che fa fatica a pensare per grandi progetti, che vive con insofferenza la dimensione del pubblico rispetto a quella individuale.
Riscoprire ed attivare l’impegno pubblico nella tutela della bellezza (discreta e diffusa) e della cultura della città e nella gestione dei settori sopra descritti, è il grande sforzo che attende Vicenza e la sua classe dirigente nei prossimi anni.
Questa classe dirigente, nell’amministrazione comunale, nelle categorie economiche, nel mondo delle professioni, nella magistratura stessa, nella cultura, dovrà innanzitutto dialogare al proprio interno, integrare le varie componenti e proporre soprattutto una visione sul futuro. Una visione che rilanci un patto tra pubblico e privato, spesso detto, quasi mai praticato, nell’urbanistica, nei servizi, nelle infrastrutture: forse da qui può nascere un nuovo Rinascimento per Vicenza, per crescere e svilupparsi in questo XXI secolo, rispettando il suo Io antico e la sua antica bellezza.