«L’assurdo di questa situazione politica è che il nostro gruppo presto potrebbe abbandonare un alleato, la Lega, stra-favorevole alla Tav, per un altro alleato, il Pd, che è ugualmente e forsennatamente favorevole alla Tav». È questo il succo della analisi di un parlamentare dell’Italia del Nord in quota M5S che chiede l’anonimato «pena la mia defenestrazione dal partito». Una analisi distillata e raccolta dai taccuini di Vicenzapiu.com in cui lo stesso parlamentare tra l’altro usa il termine «partito» perché «con tutti i pregi ed i difetti di questa definizione noi ormai un partito siamo» tanto che il parlamentare parla di una situazione che mai avrebbe immaginato appena un anno fa dopo le politiche del 2018.
Senta che aria tira tra palazzo Madama e Montecitorio?
«Stiamo attenti a non calpestare le mine. Ce ne sono in abbondanza, cosparse da tutti».
Questa rottura tra M5S e Lega si farà davvero?
«Io non lo so. Il leader leghista Matteo Salvini è molto più spregiudicato di noi. Potrebbe anche fare marcia indietro se vede che si sta ficcando in un vicolo cieco. Chi lo sa».
Ma non c’è un po’ di incoerenza da parte vostra? Il Carroccio per anni è stato visto come l’emblema del vecchio potere. Poi nel 2018 che è successo?
«È arrivato il contratto di governo. Che avevamo proposto a tutte le forze e che poi ci ha visti sottoscrivere un patto con la Lega».
Un contratto in cui i desiderata leghisti erano irrinunciabili mentre le vostre richieste erano sempre più o meno negoziabili. O no?
«In parte è vero».
Mi scusi però, nel 2018 già sapevate chi fosse Salvini. All’epoca sulla stampa si sprecarono i commenti di chi metteva in guardia il vostro capo politico Luigi Di Maio. Commenti in cui si metteva nero su bianco che il leader del Carroccio avrebbe giocato con di Maio come con il gatto col topo. Secondo questa lettura il M5S meglio avrebbe fatto a rimanere alla opposizione o a chiedere di rivotare. Non è così?
«Vista con con gli occhi del cittadino comune una lettura del genere ha senso. Vista con l’ottica delle cancellerie internazionali meno».
Che significa?
«Nelle cancellerie internazionali, Usa, Germania, Ue e Israele in testa questa alleanza anomala è stata vista come una sorta di male minore. Una sorta di necessario governo di unità nazionale che ha potuto prendere il largo solo dopo alcune rassicurazioni precise».
Quali?
«Che l’Italia, in quanto nazione sconfitta dopo la Seconda guerra, non si sarebbe allontanata dal perimetro della Nato. Che l’Italia non avrebbe rivelato i protocolli segreti e anticostituzionali per cui è previsto il placet americano per la nomina del Presidente della repubblica, di quello del consiglio, del ministro degli esteri, di quello degli interni nonché del governatore della Banca d’Italia. All’alleato americano poi è stato garantito che il segreto di Stato sarebbe rimasto su tutta una serie di dossier, mentre alle cancellerie internazionali è stato garantito che il governo non avrebbe rivelato alcuni dossier delicati sulle transazioni relative ai titoli del debito pubblico nonché a quelle sui derivati».
Chi sono i garanti di tali accordi?
«In primis c’è il capo dello Stato Sergio Mattarella. Poi c’è il responsabile dell’Economia Giovanni Tria. Su altri nomi che ho sentito non mi sbilancio. I vertici del M5S hanno detto sì. Lo stesso hanno fatto i leghisti. Il che spiega le trasferte oltre confine, oltreoceano in primis, di tanti capoccia dei due partiti».
E la Tav?
«Figuriamoci. Non è così importante. La Tav o il Tav o il Tac, chiamiamola un po’ come vogliamo, è però stata oggetto di un pre-accordo al massimo livello tra Lega e M5S.
Che l’iter della Torino Lione, anche se rallentato, non sarebbe stato bloccato era stato deciso prima. Ad ogni buon conto l’accordo internazionale con la Francia una certa qual pregiudiziale la poneva, anche se magari con la diplomazia la si sarebbe potuta superare».
E sul piano dell’immagine per voi come è andata?
«Per noi è stato un massacro».
Ammettiamo per un secondo che il trattato internazionale con la Francia abbia avuto un peso. Epperò la Tav nel tratto Veneto ossia Verona, Vicenza, Padova non è soggetta certo a accordi internazionali. Eppure in questo caso pur a fronte di un parere ancor più negativo della commissione tecnica sul rapporto costi benefici guidata dal professore Marco Ponti è stato addirittura il ministro Danilo Toninelli a dire sì all’opera. E quindi?
«Guardi che il dicastero delle infrastrutture non è un posto tanto facile in cui stare».
Va bene. Ma così in qualche modo confermate la lettura di Ponti quando quest’ultimo parla di intangibilità dei poteri costituiti. Un altro grande esperto di infrastrutture come Erasmo Venosi, uno che le stanze di piazzale Porta Pia le conosce a menadito, ha spesso sostenuto la inadeguatezza di Toninelli accusandolo di non essersi sbarazzato di quello che può essere definito il cuore del potere di quel ministero, ovvero la cosiddetta unità di missione tanto cara all’ex super-dirigente Ercole Incalza. È così?
«Purtroppo sì. Conoscevamo così bene i suggerimenti di Venosi nonché la sua competenza che il suo nome, in punta di piedi, era stato inizialmente fatto ventilare a Roma come ministro o come sottosegretario ai trasporti».
E poi che cosa è successo?
«Dall’entourage della Casaleggio e associati è stato posto un veto. Poi non se ne’è più discusso».
Però lei si sarà fatto un’idea no?
«Sì».
Per caso allude al fatto che nel consorzio che dovrebbe realizzare l’opera nella tratta Milano Verona, il Cepav due, c’è anche la vicentina Maltauro costruzioni? Per caso allude al fatto che un uomo legato a doppio filo alla Maltauro come Paolo Simioni, pare con la benedizione dell’entourage della Casaleggio, sia divenuto amministratore della società del trasporto pubblico del comune di Roma, l’Atac, in una giunta in quota M5S? Per caso allude al fatto che Simioni viene visto vicino al mondo delle concessioni autostradali, mondo che al ministero pesa parecchio?
«Non mi faccia parlare, la prego. Altrimenti finiamo male. Le dico solo che l’esito di molte partite, al di là delle piazzate sui giornali, era già stato deciso a tavolino».
Questo però vi crea dei problemi con la base, specie con la galassia ecologista che in mezza Italia aveva creduto in voi sostenendovi massicciamente. Vero o no?
«Vero sì. Basti vedere quello che è successo in Valsusa con i No Tav che ci hanno preso a pesci in faccia. E non è bastata la difesa d’ufficio di Marco Travaglio su Il Fatto. Perché se la difesa di Travaglio, forse e sottolineo forse, vale per la tratta piemontese in ragione degli accordi internazionali, ben diversa è la cosa per la tratta veneta. Per la tratta veneta, che di fatto non è nemmeno iniziata, non ha senso parlare di accordi tra Stati. Motivo per cui il sì di Toninelli alla Verona, Vicenza Padova è incomprensibile: a meno che non si tirino in ballo le pressioni di Confindustria e affini. Non c’è solo l’opera in sé stessa che preoccupa. Ci sono gli appetiti per le speculazioni urbanistiche collegate. C’è un tracciato che a Vicenza, per esempio, potrebbe comportare sfaceli per il territorio».
Ma anche per la Pedemontana veneta c’erano accordi pregressi tra Lega e M5S?
«Sì. Guardi, al di là delle dichiarazioni di facciata e delle sparate sui quotidiani, il vertice del M5S del Veneto e non solo del Veneto, ha sempre considerato quella partita persa. Non mancano i consiglieri regionali i quali ritengono che pur se non condivisibile l’opera non vada bloccata».
Come mai?
«Perché la Spv è gradita al governatore leghista Luca Zaia che gode di un amplissimo consenso. Un pezzo del M5S, non esclusivamente delle Venezie, ritiene che non sia salutare per le sorti dello stesso M5S mettersi di traverso. Non so quanto questa tattica sia dettata da una incapacità di leggere gli eventi o dalla malafede. Ed è innegabile che un pezzo dei Cinque stelle del Veneto con Zaia e soci una certa qual affinità l’abbia sempre avuta. Basti pensare all’assenza di critiche al segretario generale della Sanità veneta Domenico Mantoan, uno che gestisce un budget di miliardi».
Ma concretamente come avrebbe potuto il M5S mandare a carte quarantotto l’iter della Pedemontana per addivenire ad una soluzione giudicata più ragionevole?
«Sarebbero bastati un paio di provvedimenti del ministro Toninelli e il baraccone sarebbe saltato per aria anche perché le tare del progetto e la macilenta assurdità della sua base finanziaria le conosciamo tutti. Le dico di più. Dai territori era arrivata una richiesta precisa».
Quale richiesta?
«Quella di approvare un emendamento alla prima legge disponibile che cancellasse lo strumento del project financing. Ancora una volta dall’alto, sia dal governo che dall’entourage di Di Maio, è arrivato un no secco. Al che ho scoperto che tanti miei colleghi che da sempre avevano criticato quella porcheria consentita dal codice degli appalti che sgrava il privato dal rischio d’impresa nella realizzazione di commesse pubbliche era divenuta tutto sommato accettabile se si fossero eliminate le storture. Ho scoperto che molti attivisti erano dei liberisti sotto mentite spoglie. O semplicemente attaccavano l’asino dove voleva il padrone del momento».
Lei parla di porcheria. Si riferisce appunto alla pratica del project financing?
«Esattamente».
Ma sul fatto che il M5S abbia evitato noie alla Spv o Pedemontana che dir si voglia non ha pesato il fatto che uno dei player fondamentali per la raccolta dei fondi privati utili a far proseguire un’opera il cui proponente era letteralmente squattrinato sia stata Jp Morgan? L’americana Jp Morgan non è una delle più grandi banche d’investimento a livello internazionale che ha un certo punto, ben più di altri player, aveva deciso di scommettere sui titoli del debito pubblico italiano?
«Io credo proprio di sì, perché le voci in tal senso sono state molte. A mezza bocca ci è stato detto di non rompere troppo i coglioni sulla Pedemontana perché Jp Morgan ha un peso negli investimenti sul debito pubblico italiano».
Sì, però se l’investimento della Spv va a carte quarantotto sarà la Regione Veneto che ci rimetterebbe fino a una dozzina di miliardi di euro no?
«Eh già, pensi che affare. Questa eventualità onestamente è stata denunciata anche dai vertici del M5S del Veneto. Ed è proprio per questo che al ministero delle infrastrutture e a quello dell’ecologia gira una indiscrezione abbastanza fondata. Quella per cui ambienti di primo piano del Carroccio nazionale vorrebbero chiedere al governo di separare la concessione in due parti. La meno problematica, ovvero quella della tratta da Spresiano nel Trevigiano a Breganze o a Villaverla nel Vicentino rimarrebbe al privato. Mentre quella più rognosoa, quella che contiene la grana del tunnel di Malo e la voragine di Castelgomberto finirebbe sotto l’ala protettrice di Anas. La quale si accollerebbe tutte le incombenze di un progetto che assomiglia ad un castello tirato su una torbiera. Sarebbe l’ennesimo scandalo se così fosse».
Lei insiste molto sui temi ambientali. Ci sono alcuni giornalisti però, come Stefano Feltri, i quali sostengono che i Cinque stelle debbano se non abbandonare, concentrarsi un po’ meno, su alcune battaglie, definite «locali» per dare più spazio ad altre care all’elettorato d’opinione moderato che è pur presente nella galassia dello stesso movimento. Lei è d’accordo?
«Guardi che quei servizi del 26 e del 27 luglio sul Fatto quotidiano li abbiamo letti e riletti. Di fatto sono una indicazione per una metamorfosi in senso moderato del nostro movimento. Quasi si volesse farne una specie di Cdu tedesca con una impomatata di populismo così, giusto per salvare le apparenze. Si tratta di un cattivo suggerimento. Le battaglie che Feltri definisce locali sono invece l’essenza definitiva di ciò che diede vita al M5S che contestava in radice il modello di sviluppo della nostra società».
Davvero?
«Davvero sì. Arrivo a dire che se avessi potuto barattare il reddito di cittadinanza col blocco della Tav, del Tap in Puglia, della Spv o di altre nefandezze dai costi economici, ambientali e sociali incalcolabili, l’avrei fatto senza pensarci un minuto. Il motivo? Perché l’impatto sociale, anzi antropologico sugli italiani sarebbe di gran lunga superiore in termini positivi chiaramente».
Tutto bello, diciamo così. Però con Salvini ci siete andati. E allora?
«Ora premesso che sono io il primo a pentirmi di essere andato dietro alle sirene di Salvini, il quale altri non è che una marionetta nelle mani della politica imperialista degli Stati uniti. Tuttavia non è certo andando in bocca alla tecnocrazia europea cara alla Germania e a un certo mondo finanziario che il Paese si risolleva. E con questo non voglio togliere nulla alle responsabilità, anzi ai peccati mortali, commessi dagli italiani in termini di sperperi e corruzione negli anni: una condotta dissennata, spesso servile verso la Ue, che ci ha consegnato nelle mani degli operatori che speculano sul debito pubblico».
Lei dice che dietro la possibile rottura del M5S col Carroccio ci sia lo zampino della Germania?
«Credo di sì. Come allo stesso modo dietro lo strappo di Salvini c’è un pezzo del deep state americano in una con i dettami della politica estera cara a israeliani e sauditi. Parlare di sovranismo in Italia è una barzelletta».
Ma se nessuno è esente da ingerenze di così vasta portata allora a questo punto quanto ha contato la brama di andare al governo nel M5S? Quanto conta la voglia per molti parlamentari di non decadere, di non rinunciare alla poltrona e quindi di scendere, forse, a patti con l’ex nemico ovvero il Pd che fu di Matteo Renzi? Quello che il M5S ha massacrato un giorno sì e l’altro pure per l’affaire Boschi, per l’affaire Consip o durante la campagna per il referendum costituzionale? Non rischiate di fare la figura dei maggiordomi che semplicemente si azzuffano o camminano insieme semplicemente per contendersi il ruolo di primo maggiordomo davanti al padrone del vapore?
«Purtroppo sì. Tuttavia credo che questo andazzo sia, almeno in parte, connaturato con la natura umana e con il dato storico e geo-politico che caratterizza questo tempo. Questa tara ammorba inevitabilmente tutte le forze politiche, nessuna esclusa. Tale andazzo va combattuto però, anche se è difficile farlo. Ma è proprio per non arrendermi a questa logica che non posso accettare il consiglio di Feltri. Il quale da bocconiano doc non può che essere prigioniero di una visione economicista del mondo, quando è l’ambiente la prima base della vita. La vita sulla terra è comparsa ben prima dell’economia».
Feltri più precisamente su Il Fatto del 26 luglio scrive: «… già questo sconsiglia di lasciare il governo in nome di una battaglia identitaria ma locale che, nonostante l’evidenza dei numeri sullo spreco, è percepita anche da molti elettori moderati Cinque stelle come anti-industriale e retrograda». Non si tratta di fatto di una critica a chi la pensa come lei?
«Certo che sì. Ma quella di Feltri è la tipica critica dell’establishment economicista, Feltri sicuramente sbaglierà in buona fede, anche se quel corsivo, è chiaro, è la base di partenza per un dialogo col Pd. Tuttavia i padroni del vapore che come lui usano la stessa argomentazione certamente non sbagliano in buona fede. Ma danno sostanza ad una ideologia che semplicemente giustifica un determinato assetto della società dal quale scaturisce una smisurata rendita di posizione, per pochissimi ovviamente. Poi c’è un altro aspetto che mi inquieta».
Per caso lei crede che quel corsivo costituisca una sorta di preambolo buono per indorare la pillola nei confronti dell’elettorato Cinque stelle che di lì a poco si potrebbe vedere costretto a prendere in considerazione l’ipotesi di una alleanza per alcuni incestuosa con il partito dell’ex premier ed ex nemico numero uno Matteo Renzi?
«Esatto».
E allora che cosa si dovrebbe fare?
«Con tutti i limiti che la cosa comporta l’unica cosa che va fatta è cambiare la legge elettorale: proporzionale puro con preferenze. Se serve si vota una finanziaria ponte, una finanziaria equilibrata che non ci esponga ad attacchi speculativi. Poi si deve andare a votare in inverno, al massimo in primavera. E appresso bisognerà lasciare a Salvini, sempre se vincerà le elezioni, l’incombenza della manovra. Non possiamo noi fare il lavoro sporco al posto suo. Sarebbe una stronzata micidiale. Quella che descrivo è una opzione piena di rischi incalcolabili. Ma è la meno ingiusta. Spero che una opzione del genere aiuti gli italiani, me compreso, a capire chi comanda davvero. Alla fine la mia posizione è molto simile a quella di un giornalista, che tra l’altro siede in Senato».
Parla di Tommaso Cerno del Pd che ha votato con voi contro la Tav?
«Proprio così: tanto di cappello a Cerno. L’ex direttore de L’Espresso, il quale di battaglie ambientali se ne intende, intervistato in queste ore da Libero e da Il Manifesto ha ribadito punto per punto il suo convincimento a partire da quanto impattino le grandi opere nel tessuto civile del Paese».
Se si vota si ricandiderà?
«Non so, credo di no. Sono stanco. Soprattutto è umiliante non contare nulla. E per questo faccio mea culpa. Spero di avere le forze di farlo pubblicamente, non sa quanto mi vergogno, soprattutto per come abbiamo trattato i comitati che in tutto il Paese si sono battuti contro opere inutili, costose, ambientalmente infernali. Io non so che cosa succederà al M5S, ma spero che le istanze per una società che rigetta l’attuale modello di sviluppo non finiscano al macero sull’altare della realpolitik».
Quale potrebbe essere un primo segnale positivo?
«Un no deciso alla Valdastico nord. Non ci sono scuse. L’opera non è cominciata. Non è stata finanziata. È stata fatta a pezzi dalla magistratura, ossia dal Consiglio di Stato ed è voluta solo da un pool di stakeholder molto interessati che si nascondono dietro gli slogan starnazzati e volgari della Confindustria veneta e di quella trentina. Guarda caso si tratta di organizzazioni che da tempo hanno puntato su Salvini: l’ennesimo apostolo del cemento. E nel Veneto le assicuro che il malcontento comincia a farsi sentire. Dal M5S di Verona abbiamo saputo che il sì alla Tav veneta ci costerà non poco in termini elettorali. Cerchiamo di non suicidarci ancora con la Valdastico nord».
E dal M5S di Vicenza che segnali arrivano?
«Il M5S a Vicenza è evaporato da tempo».