Maddalena Campiglia, una delle rare poetesse venete del Cinquecento il cui valore fu riconosciuto anche da Torquato Tasso. Coraggiosa e indipendente, legò femminismo e cristianesimo individuando nella verginità il mezzo di emancipazione dall’uomo. Il suo eroismo nell’affrontare questioni spinose con audacia ci interroga ancora oggi.
Nata a Vicenza il 13 aprile 1553, è frutto dalla relazione tra Polissena Verlato e Carlo Campiglia. Entrambi nobili e vedovi, genitori di due figli maschi, maggiori di Maddalena, i due regolarizzarono la loro unione solo nel 1565.
Nel corso dei suoi studi, Maddalena dimostrò particolare interesse per la letteratura, la filosofia e la musica. Fondamentale per la sua formazione risultò inoltre la frequentazione della società culturale del Cinquecento che si riuniva presso la Villa Campiglia ad Albettone di proprietà della cugina Elena, sposata con il marchese Guido Sforza Gonzaga. Qui conobbe Curzio Gonzaga – marchese di Palazzolo, poeta e diplomatico, amico di letterati ed artisti che designò nel testamento come curatore dei suoi scritti.
Tra il 1572 e il 1575 sposò Dionisio da Colzè al quale impose un matrimonio bianco e la separazione nel 1580 per far ritorno nella casa paterna. In quello stesso anno iniziò la sua produzione letteraria con scritti di carattere religioso in cui però già si intravedeva lo spirito anticonformista. Secondo la scrittrice, la verginità doveva essere vissuta non come una costrizione, bensì come un efficace mezzo per ottenere l’indipendenza femminile dal genere maschile. Come incarnazione per antonomasia di questo principio, Colzè sostenne che la Vergine Maria si era votata spontaneamente alla castità e proprio per la grandezza di questa scelta era stata scelta da Dio.
Successivamente si dedicò alla produzione letteraria emergendo nella favola pastorale “Flori”, nella quale osò menzionare l’amore tra donne. L’opera, una favola boscareccia ispirata all’Aminta di Torquato Tasso, le fece guadagnare i complimenti del poeta stesso. Flori, una ninfa vergine votata al culto di Diana, affranta dalla morte dell’amata amica Amaranta viene destinata ad innamorarsi del primo uomo che incontra. Seppur innamorata del pastore che incontra la ninfa accetta solo un matrimonio casto. Oltre al tema della verginità in questa opera viene introdotto un tema delicato, l’amore tra donne. Questo argomento trova la massima espressione nel significato della frase “Donna amando pur Donna essendo”. La donna amata da Flori è Calisa, dietro il cui nome si cela quello di Isabella Pallavicini Lupi, marchesa di Soragna, protettrice di Maddalena Campiglia e beneficiaria di Flori e di numerosi altri sonetti.
Poco prima della sua morte, avvenuta nel 1595 all’età di 42 anni, si fece ritrarre da Alessandro Maganza. Nel dipinto, esposto a Palazzo Chiericati, la figura avvolta nella cappa nera e con un’acconciatura dimessa, si isola con veemente distacco dalle altre immagini coeve, nelle quali la bellezza femminile e il rango sociale sono esaltati dalla preziosità dei tessuti e degli accessori. Il rigore dell’ampia veste nera, rischiarata solo al bavero e ai polsi, documenta quell’austerità e integrità a cui la poetessa improntò la sua vita. I grandi occhi, dallo sguardo penetrante e severo, denotano la consapevolezza delle sue scelte e del suo vivere controcorrente. L’unico sfizio che si concede Maddalena è quel libro che regge nella mano destra poggiata sulla balaustra, eloquente allusione alla sua passione poetica.
Maddalena Campiglia morì a Vicenza il 28 gennaio 1595, in seguito ad una lunga malattia che la privò della vista. Negli ultimi anni, la poetessa si avvicinò agli ambienti monacali e nelle disposizioni testamentarie espresse l’insolita volontà, che venne rispettata, di essere sepolta nel medesimo sepolcro dell’abbadessa Giulia Cisotta, presso la chiesa di Santa Maria d’Araceli a Vicenza.
Una targa in sua memoria è collocata in via Apolloni a Vicenza, a fianco di Palazzo Leoni Montanari. Sostando a ricordarla possiamo riflettere sui “mezzi” di emancipazione femminile di oggi ( se di mezzi ci si deve per forza servire).