Mariapia Veladiano: «Le situazioni di crisi accentuano le disuguaglianze»

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Una parte dell’Italia prova a rimettersi in modo in questa fase due pandemica, ma ci sono otto milioni di studenti (e relative famiglie) per i quali il ritorno a una vita anche solo pallidamente “normale” è escluso. E a questo mondo fin qui non è emersa una grande attenzione. Il governo ha nominato una “task force” che sta lavorando, mentre le scuole vanno avanti per come sanno e riescono. Fino a quando? «Bisogna pensare qualcosa di assolutamente nuovo. È un problema sociale, non della scuola e basta», dice la scrittrice vicentina Mariapia Veladiano, alla luce della sua lunga esperienza da insegnante e poi dirigente scolastica.

Le risposte emergenziali della scuola italiana ai tempi della pandemia: cosa ha funzionato e che cosa no?
Credo che mediamente ci sia stata una straordinaria capacità, da parte delle scuole, di mettere in campo in tempi rapidi degli strumenti capaci di non lasciar cadere il rapporto educativo con i ragazzi. Naturalmente sia le scuole sia le famiglie erano diversamente preparate. Secondo un’indagine che il Miur ha fatto interrogando le scuole a tre settimane dalla loro chiusura, la Didattica a distanza (Dad) aveva raggiunto il 94% degli studenti. Un dato messo in dubbio da molti altri studi, ma anche accogliendolo vuol dire che mezzo milione di bambini e ragazzi non è raggiunto dalla Dad. E qui c’è uno dei problemi: questa modalità in questa prima fase ha aumentato le disuguaglianze. Un altro problema è che la Dad non ha ancora una letteratura come didattica esclusiva né la formazione dei docenti in questo ambito è stata una preoccupazione particolare nel passato. Un altro problema è stato l’impegno richiesto ai genitori, già impegnati spesso nel lavoro da casa, a gestire emotivamente una situazione eccezionale per loro e per i figli. Tutto tranne che facile. Bisogna assolutamente che la scuola trovi la strada. Certamente, se questa situazione di emergenza dovesse interessare anche la prima parte del prossimo anno scolastico, bisogna pensare qualcosa di assolutamente nuovo. È un problema sociale, non della scuola e basta.

Che cosa immagina lei, può fare esempi?
Se sarà permesso di lavorare in piccoli gruppi si può mobilitare il servizio civile. Attualmente sono in attesa di risposta 80mila domande di servizio civile: un tesoro di risorse giovani e piene di entusiasmo che si potrebbe mandare nei quartieri a raggruppare quei bambini che non possono essere seguiti con la Dad.  Si tratta di avere idee e di differenziare gli interventi a seconda delle situazioni: le classi prime (elementare, media e superiori) del prossimo anno avranno bisogno di essere a scuola in presenza per alcune settimane e fare il passaggio, diventare classe. Quindi pensare alle prime come classi con esigenze differenti rispetto alle altre. Se per tornare a scuola si dovrà avere classi meno numerose, si deve pensare a come poterlo fare. L’ipotesi che viene fatta in queste ore, di lasciare tutto come sta e semplicemente dividere la classe a metà, con metà ragazzi che segue da scuola e metà da casa e poi alternarli vuol dire non conoscere adeguatamente i fatti, ovvero che la Dad è altra cosa dalla didattica in presenza, richiede l’uso di strumenti peculiari, non si tratta solo di far assistere ad una lezione. Quello lo si può fare con un semplice collegamento skype e amen. Senza contare che non risolve il problema per le famiglie di seguire i bambini piccoli, sia pure a settimane alterne.

Fase 2: 8 milioni di persone (e secondo alcune stime 11 milioni di genitori) dimenticati dai decisori politici?
Per ora le indicazioni sono di continuare la Dad come se stesse andando bene per tutti, il che non è vero evidentemente. Che cosa si potrebbe fare, già ora, di meglio? Innanzitutto pensare la scuola come un interesse di tutti e non delle singole famiglie che si devono arrangiare a trovare una soluzione. Congedi alternati per i genitori che devono seguire i bambini, è stato detto. Studiare possibilità di rientro differenziato come è stato fatto in Danimarca, ad esempio. I piccoli in piccole classi con accorgimenti opportuni, qui devono essere gli esperti a dire fin dove si può andare. Torno a pensare a piccoli gruppi seguiti, anche nella scuola a distanza, da ragazzi che si mettono a disposizione, forse ancora il servizio civile. Esplorare le possibilità. Se si fa finta di niente tutto ricadrà sulle famiglie, e in particolare sulle donne. La crisi del 2008 ha riportato moltissime donne a casa, senza lavoro e senza reddito. Un arretramento terribile.

I giovani e i piccoli si stanno mostrando i più pazienti e resilienti o i più senza voce?
Dipende dalle situazioni, anche delle famiglie. Ci sono famiglie che hanno risorse personali, spazi fisici, appartamenti grandi, terrazzi, computer a sufficienza, inventiva, capacità di governare la tensione: per questi bambini i mesi che stanno vivendo possono essere mesi di stress, ma anche di grande crescita personale ed emotiva. Poi ci sono famiglie che già erano fragili prima e per queste la situazione attuale è davvero rischiosa se non vengono accompagnate dai servizi. Che ci sono e non ci sono.  C’è anche chi non sa chiedere aiuto. Ecco perché siamo un po’ tutti chiamati ad essere attenti oggi. La chiamo responsabilità diffusa. Poi ci sono gli adolescenti, che il virus ha riportato in famiglia proprio nell’età in cui la vita è soprattutto altrove. Viaggiano sul filo di una situazione che si impone come limite e il limite può essere anche educativo o può fare esplodere situazioni depressive o conflittuali. Credo che sia una grande prova per le famiglie, ma se non sono lasciate sole può essere vissuta con consapevolezza.

C’è chi invoca la riapertura degli spazi della scuola al più presto, come spazio di socialità, ma anche insegnanti che vorrebbero tornare sul luogo di lavoro, pur continuando con la “dad”: che ne pensa?
Penso che la scuola in presenza sia la dimensione indispensabile della scuola. Si tratta però di trovare un punto di equilibrio fra la sicurezza totale, che è il lasciare a casa tutti gli studenti, e il rischio tollerabile. Sempre c’è una percentuale di rischio nel vivere. L’azzeramento del rischio è l’immobilità, la morte anticipata. Qual è in questa situazione il rischio accettabile? È un problema anche culturale. Ad esempio nei Paesi del Nord Europa i bambini si muovono con maggiore autonomia. Noi abbiamo l’obbligo di non lasciar mai solo il minore. Quale percentuale di rischio accetta la nostra cultura? Inoltre siamo partiti già da una situazione di crisi: in altri Paesi le scuole possono ripartire perché le condizioni di spazio sono lunari rispetto alle nostre.

Quali azioni si possono mettere in campo perché la scuola del futuro si rinnovi alla luce di questa esperienza?
Le situazioni di crisi accentuano la disuguaglianza se si parte già diseguali. Per cui certo più omogeneità nell’accesso alla connessione e agli strumenti informatici. Poi: classi molto molto meno numerose e spazi adeguati. Poi qualcosa che riguarda il lavoro. I contratti devono prevedere forme di flessibilità non penalizzante. Ci sono già questi strumenti, bisogna avere il futuro come prospettiva dell’agire politico, non solo l’orizzonte elettorale. Sarebbe un bel dimostrare ai bambini che sappiamo imparare dalle circostanze e che loro, i bambini, ci stanno così a cuore che tutta la società un poco cambia per assicurare loro l’istruzione e una vita buona.