Meditazione e pratica filosofica, Agorà. La filosofia in piazza: il valore etico e politico della mindfulness per la trasformazione della società

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Odilon Redon, Il Buddha, 1905
Odilon Redon, Il Buddha, 1905

In un articolo significativamente intitolato La meditazione che fa bene al capitale[1], Ronald Purser parla della pratica meditativa della mindfulness, che consiste nell’imparare a prestare attenzione al momento presente, nell’imparare a vivere con consapevolezza (e con ciò guadagnare in serenità), e che è certamente molto diffusa, diciamo pure che è di moda. Questo essere di moda di per sé non vuol dire che tale pratica sia superficiale o sopravvalutata, anche se è alto il rischio che sia banalizzata, se viene ridotta a una mera tecnica di rilassamento e di riduzione dello stress. L’autore delle righe che state leggendo, per esempio, frequenta la mindfulness, concependola e praticandola, senza presunzione, in maniera “profonda”, come un cammino “spirituale” che comporta una radicale trasformazione di sé[2].

Nell’articolo suddetto, Purser muove una critica molto forte alla mindfulness, dicendo che essa non serve in questo mondo ingiusto, perché non serve a cambiarlo dal punto di vista politico ed economico e, anzi, aiuta ad adattarvisi. Purser sostiene questa tesi riportando, tra le altre cose, il fatto che i corsi di mindfulness sono introdotti dai capi d’azienda, affinché i loro collaboratori e dipendenti lavorino di più, siano più produttivi e abbiano successo: in questo senso essa sarebbe una  “meditazione che fa bene al capitale”, funzionale al sistema, ma non aiuta a cambiarlo: «Invece di liberare le persone, la mindfulness le aiuta ad adattarsi a quelle stesse condizioni che sono alla radice dei loro problemi»[3].

Conoscendo e praticando la mindfulness, ho trovato l’articolo molto interessante, ma credo che quella di Purser sia una critica sbagliata. Se fosse una critica giusta, la si potrebbe fare per qualsiasi pratica che non sia immediatamente e direttamente un’attività politica o sociale, per esempio anche per la pratica filosofica, ossia quella pratica che aiuta ad avere consapevolezza di sé, che aiuta a reperire un senso alle nostre esperienze e a trasformare la propria maniera di vivere: quella pratica a me cara, che frequento da tanti anni e che pretendo persino di insegnare attraverso il counseling filosofico[4].

Ma non è una critica giusta perché, così come ci sarà chi vuole cambiare la società, lottando contro certi sistemi politici ed economici, ci sarà anche chi vuole anzitutto cambiare sé stesso e, così facendo, magari vuole anche aiutare gli altri a cambiare sé stessi, per esempio imparando a rapportarsi in modo diverso alle persone e alle cose. Questo cambiare sé stessi può avere, e spesso ha, un valore, almeno indirettamente, politico: il cambiare sé stessi attraverso la meditazione non va, o non deve andare, nella direzione di chiudersi in sé stessi e di chiudersi agli altri ma, al contrario, può e deve andare nella direzione di diventare più etici, ossia, per esempio, più compassionevoli verso tutti gli esseri viventi: è un cambiamento individuale, che, a differenza di quello che Purser sembra ritenere, può influire sulla società nel suo complesso.

Mi sembra, insomma, sbagliato bollare come inutile, o addirittura dannosa, qualsiasi attività che non sia direttamente politico-sociale: abbiamo bisogno di entrambe, dell’attività politica e della pratica filosofica o meditativa, ma, naturalmente, non è detto che una stessa persona sia in grado di, o voglia, svolgere e realizzare sia l’una che l’altra.

La critica di Purser è a mio avviso sbagliata per i motivi detti, ma potrebbe anche, in realtà, non essere sbagliata, in particolare se è rivolta alla forma banale di mindfulness, alla mera tecnica di concentrazione e di rilassamento, che si può imparare velocemente: ma in questo caso è una critica che non centra il bersaglio giusto, cioè l’autentica meditazione, che comporta un cammino costante, lungo e quotidiano, di trasformazione etica di sé, del proprio modo di vivere e di rapportarsi agli altri.

Detto ciò, l’articolo di Purser ha però sicuramente un grande merito: quello di richiamare l’attenzione sul rischio di scambiare sempre e solo per problema personale quello che, invece, è un problema politico e sociale: il rischio di credere che dipenda sempre e solo da noi, per esempio, lo stress (e quindi dipenda solo da noi non averlo) e che non dipenda magari dalle condizioni politiche, economiche e sociali in cui siamo costretti a vivere e che dovrebbero essere cambiate.

Però, analogamente a quello che ho sostenuto in un precedente articolo in relazione alla possibilità di dare senso al proprio lavoro anche quando questo non piace e per ipotesi non può essere cambiato, io aggiungo, per concludere: qualsiasi siano le condizioni “esterne” in cui viviamo, e pur ammettendo che esse siano eventualmente da cambiare, è importante trasformare il nostro “interno”, imparare a saper vivere in esse, imparare a pensare in modo da dare senso e pienezza alla nostra vita: e a ciò possono servire la pratica filosofica e la pratica meditativa.

[1] R. Purser, La meditazione che fa bene al capitale, «Internazionale», n. 1341, 2020, pp. 82-87.

[2] Sulla mindfulness: F. Fabbro, La meditazione mindfulness. Neuroscienze, filosofia e spiritualità, il Mulino, Bologna, 2019; T.N. Hanh, Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma, 1992.

[3] R. Purser, La meditazione che fa bene al capitale, cit., p. 82.

[4] Sulla pratica filosofica: M. Montanari, Vivere la filosofia, Mursia, Milano, 2013. Sul counseling filosofico: L. Berra, M. D’Angelo (a cura di), Counseling filosofico e ricerca di senso, Liguori Editore, Napoli, 2008.


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a cura di Michele Lucivero

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