Il cibo e la cucina dell’Antica Roma sono sempre stati narrati dai diversi autori dell’epoca, da diverse angolazioni con importanti valenze socio economiche per tutta la popolazione. Cibo e gastronomia, non riguardano solo i gusti e le abitudini alimentari degli imperatori romani e la popolazione di Roma, ma anche il ruolo fondamentale che avevano nel governo della genti e del territorio.
Centrale era l’alimentazione mediterranea dell’epoca, anche se non era completa, come quella intesa oggi, poiché carente di prodotti importanti che saranno inseriti successivamente nel Medioevo e con la scoperta dell’America. Gli intellettuali di Roma, osservando anche le peculiarità delle scelte alimentari degli imperatori e del popolo romano, avevano evidenziato, prima delle attestazioni scientifiche contemporanee, la validità del principio della “mens sana in corpore sano”, anticipando diversi modelli di valutazione del gusto a cominciare da Caio Giulio Cesare, parco nel consumo del cibo e gran maestro di galateo a tavola.
Lui è l’involontario autore di uno dei precetti universali della gastronomia: “de gustibus non disputandum est”. La famosa affermazione, riportata da Plutarco, sarebbe di Cesare mentre era governatore della Cisalpina, dal 59 al 55 a.C. Lo storico narra che una sera il Generale andò assieme ai suoi più stretti collaboratori ospite nella Domus milanese di Valerio Leone.
Tra le portate venne servita una magnifica preparazione di asparagi, conditi con il burro. Ai suoi commensali la pietanza non piacque affatto (abituati all’olio d’oliva e non al burro, usato a Roma come unguento), così la indicarono come cibo “barbaro” poco appropriato al loro palato. Di fronte all’imbarazzante situazione Cesare, da uomo intelligente ed avveduto, placò gli animi con la frase:“de gustibus non disputandum est” (non si può discutere sui gusti personali) placando il disagio del padrone di casa con i suoi poco commendevoli ospiti.
L’alimentazione dei romani si evolse rapidamente soprattutto grazie alle conoscenze di quella dei popoli conquistati. La stabilità economica dell’impero raggiunta con la “pax romana” di Augusto aveva reso possibile l’importazione e la diffusione dei beni primari in tutto il bacino del mediterraneo.
La loro alimentazione era normalmente divisa in tre pasti quotidiani chiamati inizialmente jentaculum (la prima colazione), coena (cena) nelle prime ore del pomeriggio e la serale vesperna successivamente sostituita dal prandium (che nel tempo si invertì come orario con la cena). Per la maggioranza dei romani, la prima colazione era semplicissima: un bicchiere di acqua e gli avanzi della cena.
Per il prandium la plebe non rientrava a casa a mangiare, ma si fermava nelle tabernae. I piatti consumati erano semplici, come uova sode, formaggio, legumi, pane plebeo accompagnati da vino mescolato con acqua. Il pasto più importante era comunque la cena (il pasto in comune) che rimaneva, per il 99,% della popolazione di allora, come indica nelle sue fonti lo storico Jerome Carcopino, sempre abbastanzafrugale.
Tutti i romani erano golosi di una salsa, con la quale insaporivano molti cibi, chiamata Garum di cui Marziale ci tramanda la ricetta scrivendo che si tratta di una salsa liquida a base di pesci sotto sale, specialmente teste di acciughe, ed erbe aromatiche. Una raffinatezza adatta agli antipasti e comunque, in versioni più economiche ricavate dalle interiora, molto gradita anche al popolo che, a quanto sembra, ne consumava anche un chilo al giorno.
Secondo Svetonio l’imperatore Augusto in fatto di cibi aveva gusti semplici e sobri: amava soprattutto il pane comune accompagnato a formaggio vaccino, fichi freschi, pesciolini, datteri o uva. Mangiava spesso fuori pasto, in qualunque occasione gli venisse fame sia prima che dopo un banchetto. Era sobrio anche nel bere il vino: non beveva mai durante la giornata ma soltanto durante i pasti e non più di tre bicchieri per pasto.
Secondo Plinio il Vecchio invece l’imperatore Tiberio era ghiotto di cetrioli. Il suo piatto preferito, chiamato con il suo nome, si accompagnava con formaggio pecorino, olive ed olio d’oliva. Sparziano nella sua “De Vita Hadriani” cita nelle preferenze di Adriano una sorta di antesignano delle lasagne alla bolognese, il tetra farmaco e penta farmaco: un involucro di pasta dolce con carne di fagiano, cinghiale, e lepre, fresche carni simbolo di potere e di status sociale predominante.
La parsimonia nella spesa alimentare era talmente importante nella civiltà romana da introdurre la Lex Fannia, proposta dal console Gaio Fannio Strabone, che nel 161 a.C. la propose, per limitare le spese che i romani potevano sostenere durante i giochi romani ed i particolare per la preparazione dei relativi banchetti. Domiziano invece del suo frugale stile alimentare e della sua famiglia fece un modello di legislazione della ristorazione pubblica dell’Urbe: alle locande di Roma fu imposto, per legge, di preparare esclusivamente legumi.
Nella Roma antica la frugalità doveva essere una virtù in armonia con l’ideale politico. Essa era garantita da sanzioni pubbliche e contro i trasgressori erano previste pene da parecchie leggi, cosiddette “suntuarie”. Rigorosissimo fu soprattutto Cesare nell’esigerne l’applicazione.
Suetonio racconta che l’imperatore avrebbe addirittura fatto disporre guardie intorno al mercato con l’incarico di scoprire se vi si vendevano derrate proibite. Malgrado le attenzioni pubbliche sul versante della frugalità e sobrietà cittadina, l’elite, a cominciare dal generale Lucullo era attiva nell’organizzare abbondanti e costosissimi triclini, per pochissimi amici e conoscenti.
A parte la sobrietà di Augusto e l’austerità di Vespasiano, che sapeva addirittura osservare il digiuno completo un giorno al mese, Suetonio nelle vite dei Cesari raccoglie le turpitudini dei primi dodici imperatori. A cominciare da Claudio, che, oltre ad ingozzarsi di cibo e vino fino allo spasimo, offriva spesso banchetti a più di 600 invitati. Nerone era famoso per l’organizzare banchetti da mezzogiorno a mezzanotte, oltre a divagarsi, in incognito, frequentando i locali notturni romani come taverne e bettole.
Per concludere l’imperatore Valerio Massimino non mangiava mai verdura, ma in compenso era capace di divorare 40 libbre di carne in un solo giorno. Insomma nell’Antica Roma si predicava bene e si razzolava male: c’erano doveri di “mens sana in corpore sano” con leggi che imponevano la sobrietà al popolo e diritti di “voluptas “ (piaceri e sollazzi) per i suoi governanti ed imperatori.
Insomma, per dirla con le parole romanesche di Gioacchino Belli ”pane al pane e vino al vino”, la storia odierna dei privilegi ha origini antiche anche per il cibo.
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