Mi è venuta voglia di rivedere Aguirre, furore di Dio è un film del 1972. Un film importante, per molti aspetti sconvolgente anche se, probabilmente, poco conosciuto e, sostanzialmente, dimenticato.
Non si vuole sindacare sulla bravura del regista, Werner Herzog, né su che tipo di persona sia. E neppure sul carisma dell’attore protagonista Klaus Kinski e su chi sia stato. Sui litigi violenti tra regista e attore e neanche sulla colonna sonora, maestosa e possente, scritta da Florian Fricke dei Popol Vuh.
Quello che è importante in questo vero e proprio capolavoro è l’atmosfera che si respira ad ogni inquadratura e la storia che, proprio per quello che viene raccontato, può dare origine a interpretazioni diverse e, molto probabilmente, anche differenti da quella di Herzog. Non è solo la follia di un uomo.
Questa è la mia.
Il film narra un episodio della conquista dell’impero incaico da parte degli spagnoli. La ricerca del mitico Eldorado. Parla della follia che acceca la mente dei conquistatori. Ma la follia non è quella di un uomo, Aguirre, che “perde la testa” in un delirio crescente.
Aguirre è solo la metafora dell’orrenda depravazione di una civiltà che, in una ricerca spasmodica di ricchezza e potere, si erge a unica possibile. Una mentalità che non ammette possano esistere altre civiltà o altri sistemi di vita. Per questo li opprime, li annienta e, alla fine, riduce i conquistati a un ammasso di rifiuti senza diritti. Nel delirio di onnipotenza che ne consegue, tutti sono coinvolti.
L’umanità tutta viene frammentata e precipita nell’individualismo. Ognuno è solo, i vinti sono dispersi, i vincitori combattono per l’affermazione personale. L’individuo è il feticcio di una società malata. Esso diventa potente o succube solo per sua volontà. La visione stessa di società viene frantumata. Non esiste più il bene comune. Tutto è ridotto ad affermazione personale. A competizione tra individui. Ogni nefandezza è permessa.
La scena finale con Aguirre che cammina sulla zattera tra i morti e parla da solo di un futuro inesistente è emblematica di un fallimento inevitabile. Chi ha vinto sono gli indigeni che si vedono raramente e che diventano un incubo per chi voleva ergersi a dio.
C’è un concetto espresso da Aguirre (“Se io, Aguirre, voglio che gli uccelli cadano fulminati, gli uccelli devono cadere stecchiti dagli alberi. Sono il furore di dio. La terra che io calpesto mi vede e trema.”) che è emblematico della mentalità del conquistatore (e, forse, del colonialismo e dell’imperialismo). È quel credersi onnipotenti e unici depositari della verità. Quella volontà che diventa normalità di incutere terrore agli “altri” siano persone o cose. È la mentalità del predatore per il quale i conquistati, le prede, hanno vissuto e vivono nell’errore e a questi bisogna portare la vera civiltà. Non importa a che prezzo. Con la guerra, la dominazione, la schiavitù, la morte.
Il risultato finale è la solitudine in un mondo reso ostile e pauroso. Una vita miserabile, quella del conquistatore, accecata dall’odio. Si ascoltino le ultime parole di Aguirre che ormai ha perso qualsiasi ragione o ogni umanità. In una ossessione da superuomo pensa alla figlia quindicenne come sua sposa. Da loro nascerà la dinastia più pura che mai abbia regnato sulla terra.
Intorno ad Aguirre, la natura. La selva con gli animali, le piante, gli uomini che vivono in simbiosi tra loro assistono al disastro della spedizione dei predatori. Il fiume possente, che trasporta la macabra zattera procede con una lentezza esasperante, verso l’ignoto. Indifferente di fronte alla presunta grandezza e alla reale solitudine del conquistatore.