Mentre va in scena in mezza Italia, in una giolittiana indifferenza politica e mediatica, ma mostrata audacemente da Bianchi (non il Ministro, ma Zoro), la protesta degli studenti e delle studentesse con numerose scuole occupate da Roma a Milano fino a Padova e Palermo, Bianchi (non Zoro, ma il Ministro della Pubblica Istruzione) l’8 febbraio si è espresso pubblicamente in occasione del Safer Internet Day sul fatto che il digitale non sia la DaD, quella è stata solo una parentesi d’emergenza, ma che «il digitale è molto, non è chiudere la scuola, ma aprirla».
Ora, sorvoliamo sul fatto che, in fondo, nel suo ultimo discorso, come nei precedenti, Bianchi non dica nulla di significativo sulla scuola, sull’esito tragico dei PCTO, sulle condizioni dell’edilizia scolastica; sorvoliamo anche sulla circostanza, non meno grave, che Bianchi taccia sulla circolare che il 10 febbraio un suo collaboratore, l’ing. Stefano Versari, nominato dallo stesso Ministro come Capo del Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’istruzione, ha diramato, in cui veniva proposto un infelice paragone tra la persecuzione della “categoria” di italiani durante la resistenza titina, culminata nella tragedia delle foibe, e la “categoria di ebrei” durante la Shoah, un paragone tanto infelice quanto quello dei no-vax con la stella di David.
Ecco, lasciando da parte tutti questi aspetti, su cui pure non sarebbe inutile distribuire colpe e responsabilità, scendendo un po’ più a fondo, ciò di cui vogliamo rendere contro in questo passaggio è la distanza tra il linguaggio di Bianchi e i suoi riferimenti principali, da una parte, e il linguaggio della scuola, dall’altro. Infatti, al di là del condivisibile riferimento al digitale come strumento ausiliario, opzione che in molti casi riesce a colmare la distanza fisica tra i soggetti e si pone come facilitatore dell’apprendimento in caso di persone con disabilità, i riferimenti del Ministro Bianchi al digitale conducono esplicitamente, a ben vedere, a convogliare il treno della scuola pubblica verso il binario di quella che è stata definita la Quarta rivoluzione industriale.
E qui bisogna essere un po’ più accurati nell’analisi, infatti, pur senza alcun riferimento testuale, Bianchi dedica un intero paragrafo del suo testo Nello specchio della scuola alla questione della “Quarta rivoluzione industriale e la necessità di nuove risorse umane”[1], in cui afferma esplicitamente che il ritardo economico ed educativo dell’Italia è imputabile al fatto che davanti alla crisi finanziaria del 2008 siamo stati incapaci di attivare il passaggio a tecnologie di livello superiore come il 4G e poi il 5G per poter scambiare più dati all’interno dei sistemi globali dei Big data.
Ora, la Quarta rivoluzione industriale è stata introdotta nel lessico della storia dell’economia nel 2016 dall’accademico e imprenditore Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum, in un testo[2] che nell’edizione italiana viene prefato da John Elkann. Se la Prima rivoluzione industriale del XVIII secolo avviene grazie all’introduzione dell’energia prodotta da combustibile minerale, la Seconda si realizza grazie alla meccanizzazione dell’attività con l’introduzione dell’energia elettrica. Verso la metà del Novecento, poi, la diffusione della tecnologia informatica e la digitalizzazione nei settori dei servizi e delle comunicazioni avrebbero dato la stura ad un cambiamento epocale che ha segnato la Terza rivoluzione industriale. Tuttavia, è con la Quarta rivoluzione, con la robotica, l’intelligenza artificiale, l’Internet delle cose (IoT, Internet of Things, cioè il collegamento di oggetti, veicoli e cose ad internet in modo da inviare ad utenti dedicati e specifici relative informazioni), la domotica, la tecnologia blockchain su cui si fonda l’utilizzo dei bitcoin, la stampa 3D, l’ingegneria genetica, che si ha un upgrade del commercio e dei servizi con notevole trasformazione del mondo del lavoro.
È evidente, dunque, che la Quarta rivoluzione industriale, data come orizzonte ineluttabile verso il quale tutto, perfino la scuola, deve convergere, non è che una ulteriore trasformazione del capitale, che rinnova continuamente sé stesso e utilizza sempre più tecnologia per destrutturare i rapporti di produzione, delocalizzandoli, dematerializzandoli nel solco perenne dell’alienazione e dell’esclusione. La Quarta rivoluzione industriale, come la Prima, la Seconda e la Terza, non è che una rivoluzione economica e sociale imposta del capitale, che non ci dice ancora nulla della qualità della vita, che non prevede studi per analizzarne costi e benefici, ma semplicemente viene adottata dal capitale come misura necessaria in virtù della scontata innovazione verso la quale le società devono andare. Si tratta, evidentemente, di Policies di Governance sottratte alla delibera democratica e affidate ad enti, think thank, strutture non-governative che detengono di fatto il potere economico e che fanno pressione sugli Stati, come, ad esempio il World Economic Forum di Davos, di cui Schwab e presidente, e di cui, evidentemente, il nostro Bianchi segue le orme.
La Quarta rivoluzione industriale, come le altre, in fondo, è perlopiù subita dei cittadini e dalle cittadine, con indubbi vantaggi, sul piano della possibilità di consumo, ma la sua ineluttabilità è uno degli altri effetti della deresponsabilizzazione generale, dell’adiaforizzazione delle questioni sociali, circostanze che tendono a incanalare e demandare le decisioni di ordine politico, che riguardano l’organizzazione della vita di uomini e donne dei nostri tempi, verso la competenza dei tecnici, ai quali non si può obiettare alcunché. Il modello neoliberista e dirigista, manageriale e, in ultima analisi paternalista, di gestione del potere s’impone così su quello deliberativo, consultivo, cooperativo, che, invece, sembra emergere dalla proposta di Jeremy Rifkin, quando nel 2011 progettava, con tutt’altro lessico e con tutt’altro bagaglio valoriale, la Terza rivoluzione industriale all’insegna dell’energia distribuita, della democratizzazione della conoscenza, «della creazione di capitale sociale nella società civile»[3] con le istituzioni centrali dell’Unione europea.
Ecco, concordiamo con il Ministro Bianchi sul fatto che «le parole sono pietre», ma il Ministro dovrebbe spiegarci più chiaramente le sue parole da quale lessico sono tratte perché quelle del neoliberismo non appartengono affatto al lessico della scuola pubblica e, come le manganellate alle manifestazioni, fanno molto male agli studenti e alle studentesse che oggi protestano.
[1] P. Bianchi, Nello specchio della scuola, il Mulino, Bologna 2020, p. 31.
[2] K. Schwab, La quarta rivoluzione industriale, FrancoAngeli, Milano 2016.
[3] J. Rifkin, La terza rivoluzione industriale, Mondadori, Milano 2012.
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a cura di Michele Lucivero
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