Che una parte del territorio di Terra di Lavoro fosse paludoso e umido è cosa nota, tanto che l’antica regione fu smembrata dal fascismo proprio con questo pretesto geopolitico. Il tragitto che portava dall’attuale Napoli nord a sud di Roma, infatti, è stato bonificato soltanto a partire dal secolo XIX, con i Borbone.
Marìca era proprio ninfa dell’acqua e delle paludi, una dea italica il cui culto è così antico che il grande tempio che le è stato dedicato nel minturnese dagli Ausoni/Aurunci è datato addirittura XII/XI secolo a.C.
Chi erano le ninfe? – Secondo la mitologia greca, le ninfe erano divinità legate alla natura al punto da vivere in simbiosi con alberi, ruscelli, mare e montagne. Bellissime ma incredibilmente schive e riservate, hanno dominato per secoli i racconti dedicati ad eroi leggendari e uomini mortali, rapiti da quell’eterna giovinezza e da quel candore fino a diventarne ossessionati. D’altronde, è proprio da lì che è stato coniato il termine “ninfomania”…
Marìca e Diana – Marìca era signora degli animali, protettrice dei neonati e della fecondità. L’etimologia suggerisce l’utilizzo del toponimo mara, di origine preromana e sicuramente di base mediterranea, sinonimo di “palude”, “acquitrino”.
Diana era un’altra idea italica (latino-romana) legata alle selve, custode di fonti e torrenti, protettrice degli animali selvatici e delle donne, a cui assicurava parti non dolorosi.
Molti studiosi hanno messo in correlazione questi due culti, quasi arrivando a fonderli o a considerarli equivalenti; qualcuno si è spinto ancora più in là, ricordando che la dea Diana viene, a sua volta, associata ad Artemide, senza certezze su una eventuale piena corrispondenza o una successiva fusione delle due figure.
Il culto di Marìca – Per andare alle origini del culto della dea Marìca non bisogna spingersi molto lontano. Lungo la Riviera di Ulisse è possibile imbattersi in diversi resti antichissimi che, semi-abbandonati e poco conosciuti, sono ancora meta di qualche curioso e di appassionati di misticismo che non mancano di lasciare candele e omaggi alla nostra ninfa.
In principio era il lucus, potremmo dire.
Si tratta del termine con il quale i latini identificavano il bosco sacro, una specie di antenato delle nostre riserve protette (da cui pare che la legislazione abbia tratto ispirazione): la credenza che determinati territori fossero abitati da divinità e figure mistiche diventava automaticamente il “bollino” sulla loro sacralità; e così campagne, boschi e spelonche si trasformavano in templi naturali a cielo aperto racchiudenti una peculiare capacità di protezione che poteva essere estesa anche alle persone che li visitavano. Era così che certi luoghi si guadagnavano il rispetto assoluto del popolo.
Il Lucus Maricae era il bosco sacro dedicato alla dea Marìca e si trovava nella odierna pineta di Baia Domizia, al confine tra Campania e Lazio. Era parte di un’estesa e limacciosa palude, la Palus Maricae, che si inoltrava fino al lato opposto del fiume e simboleggiava, al contempo, morte e resurrezione e, quindi, il ciclo della rinascita.
Alla sponda opposta del Garigliano, negli immediati pressi dell’Antica Minturnae e a circa 550 metri dal mare, successivamente era stato eretto un vero e proprio santuario a cui, probabilmente, si accedeva soltanto attraverso imbarcazioni. Costruito con blocchi di tufo grigio provenienti dalle cave a sud del monte Massico (nel casertano), il tempio appare unico nel suo genere. Edificato, come detto, intorno al VII secolo a.C., infatti, si pensa sia stato rimesso in piedi dai Romani verso la fine del I secolo, dandogli un podio in opus caementicium e un orientamento opposto, poiché – almeno stando a quanto dicono gli studiosi – con il tempo il corso del Garigliano si era modificato. Un’assunzione che è stata fatta guardando proprio ai materiali di realizzazione, la cui parte più antica appare, invece, in tufo nero.
Quello che si sa dei lucus è che nessun albero poteva essere tagliato, nessun frutto poteva essere colto, nessun animale poteva venir ucciso: se un ramo cadeva, andava lasciato dov’era, perché tutto ciò che faceva parte del bosco era, per definizione, anch’esso sacro. Uniche eccezioni, durante le feste della divinità locale – in cui i rametti diventavano protagonisti di affascinanti rituali d’omaggio – e la ricezione del consenso dei sacerdoti a raccogliere erbe curative o da utilizzare in cucina; in quei casi, poteva essere concesso anche bagnarsi nell’acqua dei fiumi o delle foci per entrare in contatto con gli dei e fare loro offerte o preghiere. Secondo la leggenda, ogni masso che si trova nel Lucus Maricae sarebbe un trasgressore, colto dalla ninfa sul fatto e punito severamente, trasformato in pietra.
Chi avrebbe mai potuto immaginare che alcuni di questi culti sarebbero stati tacciati di stregoneria dalla futura Santa Inquisizione.
La Torre Marìca – Il culto di Marìca doveva essere molto forte nel basso Lazio. Alla ninfa, infatti, è anche dedicata una torre, di cui i resti sono ancora visibili presso Isola del Liri, spettacolare comune della provincia di Frosinone che si articola intorno a una cascata. Circondata dagli alberi, la costruzione è stata eretta sulla collina del paese, al centro di una radura incontaminata, offrendo un panorama a 360 gradi sul circondario che è impossibile descrivere a parole. Era il perno di tutte le feste di fine estate: ai suoi piedi, le ragazze lasciavano offerte di vario genere, con il divieto di restare oltre il tramonto a riposare sui suoi massi. Secondo la leggenda, la dea viveva proprio nella grotta della grande cascata, riuscendo a vincerne l’impetuosità ed inoltrarsi verso l’interno, attraverso una porta rocciosa, in un labirinto che intrappolava l’acqua e portava al lago che si trovava nel cuore della montagna.
Il culto arrivò fino ad un piccolo paese della Ciociaria, tramandato di generazione in generazione e ancora oggi ricordato da qualche anziano.
Marìca e Circe – Secondo alcuni miti romani, riportati anche nell’Eneide da Virgilio, Marìca sarebbe stata la compagna del Fauno (divinità dei campi e della pastorizia, celebre per il suo corpo mezzo uomo e mezza capra) e dalla loro unione sarebbe nato Latino. Quest’ultimo sarebbe succeduto al padre, antico (primo?) re del Lazio, e avrebbe promesso la figlia Lavinia ad Enea, nonostante fosse già fidanzata con il re dei Rutuli. Lavinia veniva definita anche “maga” o “incantatrice” perché si diceva trasformasse gli uomini in animali. E qui è facile sovrapporre il mito a quello della Maga Circe, con cui spesso viene confusa. D’altronde, il panorama dal bosco alla foce del Garigliano offre una vista spettacolare sul promontorio del Circeo…