Caro Direttore, secondo una vecchia battuta che girava nelle redazioni, i vaticanisti sono gli ultimi a sapere se muore un papa. Battuta ingenerosa, va detto, anche perché più o meno si potrebbe dire lo stesso per tutte le altre categorie di giornalisti specializzati, dagli esperti di sanità a quelli di calcio, passando per i cronisti parlamentari. La consuetudine e la vicinanza con il potere, grande o piccolo che sia, spesso rendono miopi e autoreferenziali. E per fare lo scoop deve venire qualcuno da fuori.
Ma non ce l’aveva certo con i vaticanisti, a cui per altro deve molto, papa Bergoglio, quando l’altro giorno ha invitato i giornalisti a “uscire dalle redazioni”, a “consumare le suole delle scarpe”, a non accontentarsi di sfornare “un’informazione preconfezionata, di palazzo”.
Sante parole, verrebbe da dire, se non fosse che in effetti è proprio questo che ci si aspetta dal vicario di Cristo in terra. Nel messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni, una delle tante ricorrenze inutili e un po’ ipocrite con cui il politicamente corretto planetario ha occupato perfino il calendario, il gesuita Bergoglio ha fatto un’analisi perfetta di quello che oggi è l’informazione, pur riconoscendo che tanti cronisti, operatori e fotografi, fanno il loro lavoro con coraggio e coscienza, scoprendo verità scomode e documentando violenze e sopraffazioni di ogni genere.
Il pontefice ha denunciato il prevalere di “una informazione preconfezionata, ‘di palazzo’, autoreferenziale, che sempre meno riesce a intercettare la verità delle cose e la vita concreta delle persone“. Non solo, ma Bergoglio ha anche sfiorato il nodo delle cause economiche, osservando che “la crisi dell’editoria rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più ‘consumare le suole delle scarpe’, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni”.
Non siamo nessuno per correggere o glossare il pensiero di papa Francesco. Si può solo ringraziarlo per averci richiamato ai nostri doveri che poi, per usare un’espressione un po’ antica, altro non sono che i ferri del mestiere. Vedere le cose con i propri occhi; andare e raccontare; parlare con le persone; cestinare le veline; non copiare le notizie dagli altri; controllare se un fatto o una questione sono davvero come sembrano; fare due più due e collegare i fatti; contestualizzare, spiegare le notizie con un linguaggio comprensibile a tutti; evitare di farsi latori di messaggi in codice tra addetti ai lavori. E ancora, avere una propria rubrica telefonica, coltivare le fonti, non smettere mai di studiare, avere sempre l’umiltà di farsi spiegare le cose da chi ne sa più di noi.
Eppure, ormai da anni, diciamo almeno una decina, queste che un tempo erano banalità, sono diventate delle eccezioni e dei lussi.
Delle eccezioni, perché sta crescendo tutta una leva di redattori che non si alza mai dalla sedia, che le verifiche le fa con i motori di ricerca e non chiamando qualcuno in carne e ossa, che hanno più opinioni che notizie, che non distinguono un blog da un giornale, che non hanno mai provato l’amaro calice di prendere un buco e di voler scomparire dalla vergogna alla riunione del mattino. In gran parte vengono abbrutiti dal lavoro di desk. Alcuni, i più furbi e intraprendenti, magari entrano nel giro degli opinionisti televisivi senza aver mai fatto un’inchiesta o uno scoop, campando mediaticamente sul lavoro dei colleghi più seri e riservati, quelli che le fonti le hanno ma non hanno tempo di fare i pr di se stessi. Le redazioni sono piene di gente che non ha studiato né legge, né economia, né scienze politiche, ma si è laureata in “giornalismo” o “comunicazione”. Ovvero laureati in nulla, perché poi è chiaro che quando andranno a parlare con Maria Elena Boschi di riforme costituzionali, facilmente la scambieranno per Costantino Mortati. Quando dovranno occuparsi dell’ultima retata di politici, non sapranno che il garantismo non è un’opzione politica, ma culturale (un manettaro, all’esame di diritto penale viene bocciato). E quando loderanno l’ultima fusione tra colossi dell’auto, lo faranno senza saper leggere neppure un bilancio, o un provvedimento dell’Antitrust.
Insomma, la competenza non è richiesta, anzi dà quasi fastidio ed è perfino inutile spiegare perché. E il lavoro di “suola delle scarpe”, per dirla con Bergoglio, è visto dagli editori italiani come un lusso insopportabile e antieconomico.
Le generalizzazioni di cui ci siamo macchiati nelle righe precedenti, e delle quali naturalmente ci scusiamo, non tengono però conto di un fatto che stringe veramente il cuore: nelle redazioni, o in quel che ne rimane, ci sono decine e decine di giovani studiosi e volenterosi, anche più colti e puliti di tanti vecchi giornalisti che sono entrati nella professione con la spinta di un partito politico, o di una grande azienda. Ragazze e ragazzi che vorrebbero fare i giornalisti veramente, proprio come nei film americani, o come dice oggi il papa.
Ma a molti di loro non è consentito di allontanarsi neppure un’ora dalla redazione per prendere un caffè con una possibile fonte. Anzi, ormai si teorizza che le notizie le devono, senza esagerare, portare i freelance. Peccato che raccontare un certo tipo di storie, che possono dare veramente fastidio a un qualche potere, quando si ha contratti volanti e non garantiti richiede un vero eroismo ed è anche pericoloso. Il freelance va bene per seguire il Festival di Venezia, non la P4 o l’espansione delle aziende cinesi in Italia.
Questa situazione da catena di montaggio, ottusa e schiavista, è frutto della crisi dell’editoria di cui ha parlato il papa. Ma anche di una precisa volontà degli editori, che spesso hanno interessi in altri campi, dalla sanità privata alle costruzioni generali. E allora ecco giornali fatti da un pugno di giornalisti assunti, ma poco pagati e frustrati, che fanno solo lavoro da scrivania e si credono capetti. In realtà passano gli ordini di direttori ormai lontani dal giornalismo e dai giornalisti, che magari non scrivono neppure una riga (tanto per non avere grane) e lasciano la ricerca delle notizie e la copertura dei servizi a inviati in pensione e freelance di varia età, spesso mal pagati e comunque non garantiti. Insomma, in mutande di fronte persino a un sindaco. Ovvio che giornali fatti così, al risparmio, senza coraggio ma senza neppure qualità, si avvitano ulteriormente su se stessi.
Gran parte degli editori non sa che un giornale è come un professionista di alto livello, per il quale è la reputazione a fare i soldi, e non il contrario.
Quanto al giornalismo d’inchiesta, ormai oggetto di corsi formativi dell’ordine dei giornalisti, festival e convegni affidati a gente che mai trovò una sola notizia, è disciplina praticata da pochissimi colleghi che si conoscono tutti tra loro, si conoscono e si frequentano come una piccola setta. E che spesso sono costretti perfino a scambiarsi le notizie che i rispettivi media bloccano a seconda degli stop che arrivano da editori e grandi inserzionisti. Altro che fiore all’occhiello delle rispettive redazioni. Sono un pugno di apolidi, in minoranza totale, spesso perseguitati da invidie e maldicenze di ogni genere all’interno di una categoria “giornalistica” che a stento li sopporta. Costretti, già dopo pochi anni di inchieste, a passare un terzo del loro tempo con gli avvocati, per difendersi.
Insomma, papa Bergoglio ci conosce proprio bene e ha scattato una fotografia per nulla ingenerosa, anzi. Ma un po’ di vergogna per le condizioni dell’informazione dovrebbero provarla anche gli editori e perfino i cittadini-utenti, quando non comprendono che un’informazione di qualità è un valore e quindi è anche giusto che abbia un costo.
Con il copiaincolla da internet, e la commentite acuta, si va poco lontani, e, anziché informare i cittadini di oggi, si formano i servi di domani.
Francesco Bonazzi
(Torino, 1968). Si è laureato in legge a Pavia nel 1992. Ha lavorato all’Ansa dal 1992 al 1999 a Roma, Milano e Washington, occupandosi di economia e finanza. A fine 1999 è passato all’Espresso, dove ha firmato decine di inchieste. Nel 2009 è stato uno dei fondatori del Fatto Quotidiano. Tra il 2010 e il 2014 ha fatto l’inviato speciale per Il Secolo XIX. Ha lasciato il quotidiano genovese per fare prima il vicedirettore di Dagospia e poi il vicedirettore della Notizia. Firma su La Verità e Panorama ed è corrispondente dall’Italia di Alliance News.
A volte ci onora di sue osservazioni e considerazioni, che abbiamo deciso con lui di chiamare “molestie al direttore), ed è autore, tra gli altri, di La rivoluzione senza nome. Credere, disobbedire, combattere; Viva l’Italia! Contro l’economia della paura. Perché non siamo il malato d’Europa; Prendo i soldi e scappo. I loro affari con i nostri soldi
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