L’ormai conosciuta motivazione della sentenza del Tribunale di Vicenza per il cosiddetto processo BPVi punta il dito – com’era prevedibile – sull’ex presidente Gianni Zonin, descritto come despota e in grado di controllare in ogni momento la gestione della banca – “come fosse un’azienda di sua proprietà” (prima pubblicazione di questo articolo il 26 giugno alle 10.10, ndr); i Cda succedutisi nel tempo sarebbero stati non solo, nella loro composizione, espressioni delle sue personali scelte, ma anche e soprattutto organismi formati da persone superficiali, non competenti e non in grado di contrastare la prorompente sua decisionalità, descritta come quella di un monarca assoluto. Sono frasi che, probabilmente, torneranno buone alla Procura di Treviso quando si accingerà a svolgere la requisitoria contro Vincenzo Consoli nel parallelo processo per il default di Veneto Banca.
Sullo sfondo del processo vicentino c’è la vicenda, ritenuta essere particolarmente grave, del capitale finanziato, di cui sarebbero stati pienamente a conoscenza non solo Zonin, ma anche i tre vicedirettori generali dell’Istituto fallito. Questa è una peculiarità rispetto al procedimento pendente a Treviso (o, almeno dovrebbe ragionevolmente esserlo) perché, in questo secondo caso, la problematica delle baciate è stata poco significativa e non avrebbe potuto incidere, più di tanto, sul fallimento finale dell’Istituto; anche se gli ispettori di Bankitalia si sono sforzati, oltre misura, nel far apparire come una situazione molto più grave di quella che era. Ma questo è un altro discorso.
Il punto nodale della sentenza si riassume in questa proposizione: gli ispettori di Bankitalia non sarebbero stati messi a conoscenza di tutto, a partire dalle cd baciate, e ciò avrebbe loro impedito di focalizzare la reale consistenza del capitale e di fare una corretta valutazione della situazione. La condotta omissiva dei dirigenti (sulle baciate appunto) avrebbe così depistato gli ispettori e falsato l’esito dell’accertamento.
Non ho nessuna intenzione di avventurarmi in considerazioni critiche riferite a questo specifico convincimento dei giudici vicentini perché non dispongo della necessaria conoscenza di supporti probatori e fattuali, raccolti nel processo, da consentirmi di assumere un personale convincimento. Tuttavia, ritengo di poter, comunque, dire che la parte della sentenza che più mi lascia perplesso non è quella che ha attribuito a Zonin la piena conoscenza della dinamica delle baciate nella banca, ma è quella che ha dato per scontato che esse siano state la causa (o determinante concausa) del suo default. Insomma, sono deluso dal fatto che il tribunale berico non abbia colto l’irripetibile occasione per aprire uno squarcio chiarificatore sulla grave vicenda bancaria (simile a quella di Veneto Banca), escludendo, apertis verbis, che Bankitalia e BCE possano aver avuto un qualche concorso nella causazione del disastro: ripeto, fino alla noia, che non è neppure verosimile che, contemporaneamente, un numero considerevole di banche italiane, siano fallite, tutte e solo per il malgoverno dei loro dirigenti!!
Il fallimento delle banche venete ha cancellato i risparmi di 220.000 azionisti, che sono sempre e ancora alla ricerca di capire, almeno, le verosimili cause del disastro: che riguarda non solo BPVi, ma anche Veneto Banca, Carichieti, Cariferrara, Etruria ecc. e che ha squassato l’intero sistema bancario italiano: tutto ciò può essere colpa esclusiva di un presidente o di un amministratore delegato, pur se, per carattere, incline al comando ?
Ecco, quel che si può rimproverare al processo di Vicenza è, a mio avviso, l’aver eccessivamente indugiato nel descrivere Zonin come un soggetto autoritario, che pensava di essere il padrone di BPVi; senza, però, aiutare i risparmiatori nella loro sacrosanta ansia di ricerca della verità. Non c’è stato alcuno sforzo per prospettare un credibile percorso di un evento che, iniziato chiaramente con la crisi economica del 2008, non ha consentito alle banche di reggere l’improvviso inasprimento dei parametri di classificazione dei crediti in sofferenza, le continue richieste di aumento di capitale ecc. Il tribunale non si è chiesto se le manovre di sistema escogitate e imposte dai decisori italiani ed europei siano state adeguate o (come diffusamente si ritiene) carenti e maldestre, tali da aver acuito la crisi con la creazione di una perversa spirale: si è solo limitato, pur in mille pagine di motivazioni, a descrivere le presunte megalomanie gestorie di Zonin che sarebbero state determinanti nella produzione del fallimento dell’Istituto e nel depistaggio dei (già distratti) ispettori di Bankitalia.
Lo stesso tribunale ha, poi, dato per scontato che il problema delle baciate sia stato la causa determinante del percorso suicida della banca.
Insomma, foss’anche vero che gli imputati avevano celato agli ispettori di Bankitalia l’esistenza delle baciate, è stato forse per questo che, poi, la banca è fallita?
Il sillogismo al quale il Tribunale è ricorso per spiegare il fallimento della banca berica è basato sulla prospettazione suggeritagli da Bankitalia: un presidente padre padrone e un CdA debole, arrendevole e impreparato avrebbero escogitato il sistema per gonfiare artificiosamente il capitale, ricorrendo alle baciate e nascondendole, poi, alla Vigilanza. Ma, se così fosse , sarebbe inspiegabile come mai l’Istituto vicentino, pur guidato per tantissimi anni da quello stesso presidente, sia costantemente cresciuto così tanto da essere diventato uno dei più importanti istituti bancari italiani, sotto gli occhi della plaudente Vigilanza di Banca d’Italia.
Come può essere? Vuol dire che quel ragionamento non è (in radice) credibile ed ora si rivela come l’espressione della solita e radicata tendenza italiana: quella di scaricare sempre le colpe agli altri.
Ma, addirittura, l’aver lodato (non solo giustificato) l’operato di Bankitalia nella gestione della vicenda, come ha fatto il Tribunale di Vicenza, assume, per i risparmiatori traditi, il sapore di una beffa.
Giovanni Schiavon
Già presidente dl tribunale di Treviso
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