La narrazione salviniana e la sua (dannata) modernità

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La narrazione salviniana e il consenso
La narrazione salviniana e il consenso

Vorrei provare ad abbozzare una risposta per coloro i quali s’interrogano sui motivi per cui oggi le idee che in qualche modo sono riconducibili al personaggio di Salvini, non tanto e non solo a livello elettorale, ma anche nella conversazione quotidiana, ricevono numerosi consensi, giacché sarà capitato anche a voi di imbattervi in ultracinquantenni, ma non solo, fermamente convinti della necessità di difendere l’italica identità dalla deriva barbaramente mescolatrice.

Ecco, pensiamo all’Italia meridionale, perché mai un uomo o una donna del sud dovrebbero essere condotti a votare un partito o un movimento – su questa sfumatura si potrebbe aprire un’altra discussione non meno interessante – che è nato come Lega Nord per la secessione della Padania? Diciamo pure che vi è stata un’evoluzione interna al movimento per cui l’ordine del discorso politico ha subito uno slittamento significativo che è stato percepito dalla popolazione nazionale come la costituzione di una Lega (italica) per l’indipendenza dell’Europa.

Ciò che, in fondo, è stato recepito dalla popolazione, che appoggia a livello ideologico quella che possiamo definire la “narrazione salviniana”, per intendere la mole dei discorsi che costituiscono il complesso delle frasi di Salvini e dei suoi epigoni pronunciate tra comizi svolti da Lampedusa a Predoi – per intenderci: il punto più a sud e quello più a nord d’Italia – e comparsate televisive, è sostanzialmente un discorso che fa leva su una componente umorale in difesa di un terreno culturale, tradizionale, antropologico in ultima istanza, che sembra franare sotto i piedi. Per inciso, occorre far notare che, se mai sia stato necessario e determinante, la lettura dei punti programmatici delle politiche economiche, nazionali e internazionali dei singoli partiti non è una pratica alla quale la popolazione in linea generale fa ricorso.

Ora, prima di tentare una spiegazione di tale fenomeno, è solo il caso di far notare che dalle “narrazioni elettorali” è totalmente scomparsa la chiara connotazione delle politiche liberali, conservatrici o progressiste, insomma quelle che tradizionalmente erano nate come le tendenze di destra o di sinistra, tuttavia di questa trasformazione altrettanto interessante non è responsabile direttamente Salvini.

È evidente che siamo entrati in una nuova fase del discorso politico, nuova, non a caso, almeno per gli ultimi cinquant’anni, per cui chissà se più avanzata o arretrata, certamente più confusa, dove ciò che conta, e questo è il punto essenziale, non è più la difesa, la rivendicazione fiera e la conservazione di un’appartenenza sociale ed economica, dal momento che, almeno apparentemente, quasi tutti possiamo accedere agli stessi beni di consumo, nonostante le differenze di reddito, ma la rivendicazione di un’identità culturale, che talvolta si confonde goffamente con l’assimilazione ad una tradizione religiosa, qual è quella italica media, anche spiccatamente superstiziosa.

E, allora, con queste premesse è semplice comprendere perché la generazione ultracinquantenne, ma non solo, accoglie positivamente la “narrazione salviniana”: sociologicamente parlando si potrebbe dire che è una risposta moderna alla dissonanza cognitiva derivante dalla dissoluzione della struttura di plausibilità che il pluralismo postmoderno ha generato, che, detto in altri termini, vuol dire che si tratta di un tentativo verbale – attenzione: è solo verbale, nel senso che non si può invertire il processo sociale di ibridazione già innescato  – di ripristinare un contesto culturale sicuro, fatto di identicità, di una quotidianità caratterizzata dal fatto di incontrare persone dalla pelle perlopiù rosea, che perlopiù parla un italiano dialettizzato, che perlopiù va a messa nei giorni di festa, compresi matrimoni e funerali, purché non incontri sulla strada che porta da casa a bottega edifici religiosi con simboli religiosi diversi dalle croci.

La “narrazione salviniana” è dannatamente moderna perché, bypassando le istanze economiche e sociali, ha catturato una fetta attiva, anche e soprattutto a livello elettorale, della popolazione, quella che fa capo alla spocchia geriatrica di chi senti dire al bar: «Ai tempi miei…oggi, invece, non si capisce più nulla…», che non si è adattata alla necessità del cambiamento interculturale delle nostre società, a quello che i giovani hanno sperimentato e apprezzato come ricchezza nelle loro scuole, nelle associazioni sportive, nella loro vita quotidiana, perdendo necessariamente nella conversazione con altre culture un pezzo della propria visione moderna tradizionale, ma acquistandone in tolleranza e apertura all’altro.

L’aspetto più preoccupante di questa contrapposizione tra modernità, con la sua istanza identitaria, e postmodernità, con le sue opportunità interculturali, è che i meccanismi politici elettivi di rappresentanza e delega rispondono ad un sistema tutto moderno, in cui i giovani non credono, non sentono di appartenere, per cui il verdetto è implacabile: in questo conflitto tra politica e società civile, tra moderno e postmoderno, finché non vengono ripensati i meccanismi di partecipazione e di rappresentanza, saremo ancora una volta alla mercé di una “narrazione moderna” preconfezionata da imprenditori culturali che ci vogliono far credere in un mondo che non esiste più, con il solo fine di innescare una lotta per il potere che alla fine conquista facilmente gli ultracinquantenni, ma anche gli stessi giovani.