Che Roma non sia bruciata a causa di un Nerone più scellerato e oscuro di quel che effettivamente è stato è, ormai, opinione condivisa dalla quasi totalità degli studiosi. Fake news d’altri tempi. Ma c’è un progetto di questo imperatore narciso e controverso che non ha mai visto la luce e che merita di essere conosciuto, perché avrebbe potuto davvero cambiare la storia della Roma antica, della Riviera di Ulisse e dell’intera Terra di Lavoro: la navigabilis fossa.
Un progetto ambizioso – L’ambizioso progetto dell’ultimo imperatore della dinastia Giulio-Claudia si proponeva di unire Roma e Puteoli attraverso un canale artificiale navigabile che consentisse scambi di merci veloci e più “interni” rispetto a quelli via mare. Un collegamento che avrebbe dato origine ad una nuova e più intensa interconnessione tra le due città che sarebbero diventate quasi “gemelle”, un tutt’uno all’interno dell’impero. Gli scavi cominciarono nel 64 d.C., sognando che beni di prima necessità e grano potessero raggiungere la capitale in tempi sempre più celeri (i cereali arrivavano dall’Egitto) e approfittando di una maggior sicurezza che teneva lontane le imbarcazioni dal mare aperto: il Tirreno, perlomeno in inverno, era considerato parecchio pericoloso.
Molti ignorano che Nerone stesse lavorando parallelamente ad un progetto simile anche in Grecia, il Canale di Corinto, per collegare il Golfo di Corinto con il Mar Egeo; un’opera che, in realtà, ha stuzzicato la fantasia di più personaggi antichi di rilievo. Si racconta che persino l’oracolo di Delfi si sia espresso in merito: “Né costruire, né scavare l’istmo. Perché Zeus ha costruito le isole dove pensava fosse giusto“. Ironia della sorte, Giulio Cesare e Nerone – entrambi interessati alla sua realizzazione – sono morti prima di poter vedere il progetto prendere forma e persino la modernità ha patito questa “profezia” visto che il canale, che ha poi visto la luce alla fine dell’Ottocento, è chiuso a tempo indeterminato a causa della recente frana (gennaio 2021) che l’ha interessato.
Le fonti storiche – Come facciamo a sapere con certezza dell’esistenza del progetto fossa neronis? Sono numerose le tracce presenti sul territorio coinvolto che ne parlano indirettamente, ma sono tanti anche gli scritti che ci tramandano elementi incontrovertibili. Svetonio, ad esempio, ha parlato di alcuni interventi progettati da Nerone nella zona flegrea, tra cui la (mai avvenuta?) inaugurazione di un’enorme cisterna coperta (piscina) tra Miseno e il Lago d’Averno che avrebbe avuto il ruolo di convogliare le acque calde termali di Baia. E ci sono stati contributi anche di Plinio, Tacito e Stazio.
Alcune scoperte archeologiche recenti in zona Scalandrone (a cavallo tra Pozzuoli-Lucrino e Baia) hanno anche fatto ipotizzare che il progetto fosse molto più ampio di quel che si è sempre pensato, allungando i suoi tentacoli fino a questo angolo di odierna Campania.
Ma esistono molti altri resti visibili: presso il Lago Patria e il Lago Fusaro (Campania nord), in zona Lago Lungo (a nord di Sperlonga), nella zona dei laghi di Sabaudia (a nord di San Felice Circeo). Anche Terracina avrebbe avuto la sua parte di canale (che avrebbe praticamente ricalcato quello odierno), continuando l’opera di Cesare – a scopo, più che altro, di bonifica – su cui Orazio narra di aver fatto un piccolo viaggio nel 37 a.C. su una barca a trazione animale. La città, insieme a Formia, sarebbe stata uno dei caselli marittimo-fluviali di questa arteria.
La figura di Nerone è sempre stata raccontata con un’aurea oscura e malvagia: Svetonio, che lo ha spesso dipinto con ostilità, ci ha tramandato la realizzazione di questa incredibile opera attraverso le braccia di lavoranti reclutati tra i condannati a morte, trattati come schiavi ai lavori forzati; una versione su cui Tacito ha dichiarato diverse perplessità.
Secondo molti storici moderni, la fossa neronis avrebbe anche avuto il ruolo – indiretto – di bonifica delle zone paludose che caratterizzavano il basso Lazio e l’alta Campania, anticipando di secoli quello che sarebbe successo molto tempo dopo nell’Agro Pontino. In più, attraverso di essa sarebbe diventata più agevole la circolazione delle navi, potendo aggirare il complesso degli Aurunci e la Rupe di Terracina (che più tardi sarebbe stata interessata dal famoso “taglio” ad opera di Traiano) sfruttando ogni lago e corso d’acqua che sorgesse sul tragitto.
Insomma, parliamo di un progetto (anzi, due, considerando anche quello greco) incredibilmente visionario, ma soprattutto costoso e di non semplice realizzazione.
L’incendio di Roma, la fine di tutto – Con i “se” non si va da nessuna parte, è vero, ma di una cosa possiamo esser certi: se l’incendio di Roma non fosse mai avvenuto, oggi potremmo viaggiare su una navigabilis fossa larga 60 metri e lunga 230 chilometri con le nostre barche moderne.
Nulla di tutto questo è accaduto perché, nella notte del 18 luglio del 64 d.C., Roma venne invasa dalle fiamme (originatesi dai bassifondi, l’innesco avvenne tra i magazzini del Circo Massimo, il più grande deposito di legna della città, e si potenziò il giorno seguente a causa dei venti) e continuò a bruciare per nove giorni, venendo praticamente rasa al suolo.
Nerone era ad Anzio, ma alcune fonti raccontano che tornò in fretta, addirittura aprendo le porte dei suoi palazzi per accogliere gli sfollati. Di quella tragedia incolpò i cristiani, che da lì cominciarono ad essere perseguitati (è qui che nasce il martirio di San Paolo e San Pietro); cristiani definiti da Tacito “una setta invisa a tutti per le loro nefandezze” e spesso condannati, secondo i suoi scritti, non tanto per i crimini legati all’incendio, quanto per il loro “odio del genere umano“. Gli stessi cristiani che, a loro volta, incolparono l’imperatore di aver dato alle fiamme la capitale per crearsi un alibi.
Da qui, l’inizio della fine: nel 67, il viaggio in Grecia – Nerone era un grande estimatore della cultura ellenica – per partecipare ai giochi olimpici; occasione in cui l’imperatore restituì la libertà alle polis, eliminando il governo provinciale di Roma e destando infiniti malumori tra i nobili che così persero, improvvisamente, molti tributi. L’anno successivo, le legioni stanziate in Gallia e in Spagna e guidate da Vindice e Galba si ribellarono al suo ritorno a Roma, costringendolo alla fuga. Il Senato lo depose, lo dichiarò nemico pubblico e l’ormai ex imperatore, rimasto solo e senza alcuna protezione, si tolse la vita pugnalandosi alla gola con l’aiuto del suo segretario.
Ciò che rimase della sua visionaria opera, perlomeno in Campania settentrionale, venne poi ripreso e sfruttato da Domiziano per la costruzione della Via Domitiana.
Il lago che non c’è più – Una curiosità. I lavori per la navigabilis fossa progettata dagli architetti Severo e Celere cominciarono a nord di Cuma (Campania), in una zona già abbastanza paludosa di suo e molto frequentata dalle folaghe, degli uccelli dal becco bianco e con piumaggio grigio-nero; in dialetto, follicole. Con l’abbandono del progetto, il fossato creato in loco cominciò a riempirsi di acque provenienti dalle colline circostanti, trasformandosi ben presto in un acquitrino e, dopo alcuni lavori di sistemazione nel Medioevo, in un vero e proprio lago. Era il Lago di Licola (da follicola), su cui si impiantarono flora e fauna tipiche delle paludi e che diventò apprezzatissimo dai reali borbonici che, qui, organizzavano battute di pesca e caccia, in un concerto di casine, cappelle e colombaie che sorsero tutto intorno. Ma così com’era nato, allo stesso modo il lago sparì: venne prosciugato durante le bonifiche del XIX secolo, portandosi dietro anche molti resti di epoca romana che vennero contestualmente abbattuti.