Quando il drammaturgo greco Euripide fa parlare Medea, la protagonista dell’omonima tragedia, egli non fa che illuminare inconsapevolmente un’immagine forte, nobile, quasi regale di una donna che ancora apparteneva alla società “barbarica”, da cui veniva, appunto, Medea, la guaritrice, la “maga” che custodiva segreti di vita e di morte, proprio come faceva Trotula nel pieno del Medioevo.
Tuttavia, il lento passaggio storico al patriarcato è segnalato da grandi figure archetipiche, tra cui anche la stessa Medea, che viene presentata contraddittoriamente come una donna di grande prestigio, ammirata e temuta come maga e guaritrice, ma, allo stesso tempo, come madre assassina, che si vendica in modo atroce del tradimento di Giasone, uccidendo i suoi stessi figli.
La scrittrice tedesca Christa Wolf nel suo Medea. Voci[1] la vede come una donna forte e generosa, depositaria di un antico sapere legato al corpo e alla natura. Figure come Medea o Diotima, di cui parla Platone nel Simposio, rappresentano un anello di passaggio tra la donna sacralizzata del mondo arcaico e la donna-strega delle società più ottusamente patriarcali.
La figura della donna ha oscillato molto spesso nella storia, non solo occidentale, tra questi due poli: santa o strega, guaritrice benefica o fattucchiera malefica, fata o megera[2].
Non possiamo che constatare come la nostra civiltà abbia fatto sua una visione misogina ed escludente della donna a vantaggio di modelli di forza, violenza, sopraffazione, che costituiscono il fulcro attorno al quale si avvolge o dipana la storia dell’Occidente che, non a caso, ha nel ricorso alla guerra il suo momento fondativo. Salvo poi lasciare alla poesia, all’arte, alla letteratura il compito di salvare l’umanità attraverso la bellezza e la compassione.
È interessante notare come la nascita della poesia in volgare, e nel dolce stil novo in particolare, abbia regalato alla donna un posto particolare in cui essa, all’interno di un un’aura luminosa, ritrova il suo ruolo salvifico…salvo poi essere ricacciata sul rogo come strega nel pieno rigoglio della civiltà rinascimentale.
Se lanciamo un profondo sguardo storico alla nostra civiltà occidentale, l’immagine della donna che ne ricaviamo corrisponde spesso a quella di un universo femminile polarizzato con poteri soprannaturali, come se si trattasse di un grande “parlamento”, un emiciclo tutto al femminile in cui da sinistra verso destra siedono in successione streghe, negromanti, fattucchiere, ammaliatrici, maghe, indovine, guaritrici, fate, visionarie, mistiche per finire, all’estrema destra, con le sante o presunte tali, tutto in funzione del potere di generare il male oppure il bene.
Come nella politica, certamente anche in questo singolare emiciclo si sono dati storicamente episodi di trasformismo, cambiamenti di casacche, espulsioni dal proprio gruppo fino alla costituzione, potremmo dire, di un “gruppo misto”, costituito da transfughe non meglio identificate.
Tuttavia, ciò che nell’immaginario collettivo risulta abbastanza significativo e caratterizzante è, molto spesso, l’identificazione della Santa con la bellezza e della Strega con l’aberrazione fisica e la mostruosità a livello iconografico.
Accade, infatti, che, mentre la Santa è immaginata come una donna fulgida, linda, angelica, di una bellezza quasi eterea, la Strega è perlopiù associata a tinte fosche, appare molto brutta con naso adunco aquilino, senza denti, con un immancabile porro peloso sul viso e vestita di cenci neri con un inquietante cappello a tese larghe. A costruire questo immaginario collettivo, che permane ancora nella cultura popolare, soprattutto nella notte di Halloween, ha contribuito non poco l’iconografia della tradizione cattolica lungo i secoli, anche e soprattutto ai fini del controllo sociale.
Nei nostri tempi, caratterizzati dalla ricerca a portata di mano con un click, basterebbe digitare su un qualsiasi motore di ricerca le parole “Santa” oppure “Strega” per farsi un’idea della estetizzazione dello scarto morale tra bene e male cui si è accennato. Ciò avviene perché l’operazione che consente il passaggio dall’etica all’estetica, dal bene al bello è automatica e scontata per la nostra cultura, acquisita insieme al bagaglio di conoscenza che noi adottiamo nel contesto nel quale siano inseriti, che è quello occidentale di matrice cristiana.
A fronte di questa patina estetizzante, il meccanismo che sta dietro l’attribuzione sociale del ruolo di sante e di streghe è, in realtà, molto più complesso a livello antropologico, giacché esso ha funzionato storicamente come dispositivo di inclusione o di esclusione sociale, adottato dalle comunità e dalle autorità locali per generare processi di emarginazione oppure di ostracizzazione. Tali dispositivi di esclusione hanno funzionato in passato nella società occidentale e non è detto che siano ancora in funzione, sotto altre spoglie, nella nostra società, ad esempio nella moralizzazione verbale negativa della “puttana” e nella valorizzazione estetica positiva della “escort”.
È nostro dovere, pertanto, in nome dell’umanità in generale, tenere alta la soglia dell’attenzione in riferimento al linguaggio che usiamo al fine di attivare il giusto rispetto dei diritti di uguaglianza ed equità, denunciando in ogni luogo e in ogni tempo tutte le repressioni delle istanze di liberazione dell’uomo e della donna, in maniera particolare, alla quale dobbiamo sempre essere grati per il dono magnifico della vita.
Non a caso uno slogan della fine degli anni ’70, quando si parlava di femminismo, recitava con convinzione: «Né strega né madonna! Solo donna!»….ecco, semplicemente “la donna”, nella sua naturalità, nella sua quotidianità, senza etichette e senza pregiudizi!
[1] C. Wolf, Medea. Voci, Edizioni E/O, Roma 2019.
[2] Cfr. C. Poncina, Figure femminili tra Medioevo e Rinascimento: mistiche, filosofe, poetesse, pp. 137-156 e M. Lucivero, Sante e streghe nella storia occidentale, pp. 157-225, in Y. D’Autilia, M. Di Cintio, M. Lucivero, (a cura di), L’altra metà del cielo. Il femminile nella storia del pensiero, Aracne, Roma 2016.
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a cura di Michele Lucivero
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