No, non riesco ad abituarmi a notizie come questa: “Chiampo (VI), incidente sul lavoro: operaio muore mentre lavora a una fresa”. Proprio non ci riesco. Ogni volta è sofferenza, dolore. Sgomento di fronte a una tragedia avvenuta qua, vicino a dove viviamo. Un operaio, una persona di 49 anni, ha cessato di vivere mentre svolgeva il suo lavoro. Adesso si scriverà di tragica fatalità, forse distrazione, si faranno le condoglianze alla famiglia, si diranno le frasi abituali. Una sorta di “rito” troppo ripetitivo vista la frequenza dei decessi nei luoghi di lavoro. Qualcosa che è diventata “abitudine” alla quale si rischia di non fare più caso. Si diventa indifferenti. Un poco alla volta ci si convince che sia “normale” morire di lavoro, che succede e che non ci si può fare niente. No. Non ci sto. Voglio capire cosa succede. Non posso né voglio rassegnarmi e accettare tutto questo.
In questi primi giorni di giugno, in Italia, sono quasi 20 i morti nei luoghi di lavoro. Una media di tre al giorno. Sono troppi per pensare che siano “episodi” o la crudeltà del destino. Sono troppi e ci deve essere un perché. E se non è la volontà di qualche essere malvagio ci deve essere una causa in come si lavora, nel fatto che, più o meno coscienti, si accettano rischi che mettono a repentaglio la salute e la vita, nei “ricatti” e nelle “abitudini” che impongono ritmi di lavoro faticosi e alienanti che portano ad essere distratti per mille motivi. Il lavoro non può essere questo. È il primo diritto costituzionale e deve essere motore del riscatto sociale. Deve servire a vivere il meglio possibile e non a morire. E, allora, perché succede tutto questo? Non è forse perché il modello di sviluppo nel quale viviamo, che fonda le sue radici nella competizione esasperata del “dio mercato”, nella ricchezza di pochi a scapito della fatica di tanti, è un sistema profondamente sbagliato e, in definitiva, spaventoso?