(Articolo da VicenzaPiù Viva n. 5, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
L’etimologia della parola mito è da ricondursi al greco μύθος (mythos) che tradotto in italiano significa parola, narrazione, favola, leggenda. Il termine mito è stato quindi utilizzato, sin dall’antichità, per indicare un racconto leggendario, profondamente intriso di archetipica sacralità, originatosi nella notte dei tempi.
Il termine pertanto veniva utilizzato dai boomers come dai giovani d’oggi in modo improprio quando parlavano e parlano di situazioni e fatti, simboli della loro generazione, in quanto non aventi la caratteristica di leggenda o favola ma bensì della realtà. Fatti e situazioni effettivamente da loro compiuti o vissuti.
Iconico il termine corretto ma il suono di questa parola non rendeva/rende lo stesso messaggio che assicurava il lemma mito ( se qualcuno mi avesse detto da ragazzo, dopo magari avere compiuto qualcosa di “forte”: Massimo sei iconico al posto di Massimo sei un mito, avrebbe perso un amico, in quanto l’avrei ritenuta un’offesa, nella mia abissale ignoranza. Tantomeno gli 883 l’avevano capito).
Ma per non discostarci dal gergo allora utilizzato parleremo comunque di miti, classificati come tali dai boomers vicentini.
Il Racing di Corso San Felice: un viaggio all’alba dell’era videoludica
Mai saputo perché la prima e principale, iconica, sala giochi di Vicenza veniva in tal modo chiamata, corsa in italiano. Non c’era un’insegna, una segnaletica che confermasse tale denominazione. Ma nella parlata di allora così era e fine dea discussion direbbe Luciano.
Si trovava in Corso San Felice, dopo l’incrocio con Via Battaglione Monte Berico, sulla parte sinistra andando verso la rotatoria di Viale Milano. Esattamente nel mezzo ed all’interno di una corte comune.
Il fabbricato era fatiscente, un magazzino direi. L’interno, i suoi locali erano amplissimi. Si entrava spingendo una porta pesante, metà in vetro e metà in ferro. Sul muro di ingresso a sinistra un telefono a gettoni e a destra come a sinistra i giochi. La cassa ubicata nella sala
principale dove andavi a cambiare le monete in gettoni. Nessun’aria condizionata in estate e l’afa persistente era paragonabile a quella di Kuala Lumpur, ma gli indomiti giocavano lo stesso. L’iperidrosi ascellare marcando la maglietta, come la ferita del soldato, costituiva una loro decorazione al merito: dovevano scalare la top ten, che restava memorizzata e visibile ai più, potendo così gonfiare il petto con gli amici.
Nella sala di sinistra si trovavano, oltre alla macchinetta con le palline colorate chewingum ed i flippers, i giochi cabinati (i coin’op): Pac-man, Space Intruders, Tetris, Pong (la simulazione del tennis da tavolo in bianco e nero. Più che essenziale direi minimale e richiedeva un calcolo della geometria e degli angoli degno del matematico Ramanujan), solo per citarne alcuni e senza voler far torto a nessuno. In fondo a tale sala, un ulteriore locale dove trovavano posto i tennis da tavolo. Nella sala di destra quattro biliardi, dove i veci (ultradiciottenni), sigaretta penzolante dall’angolo destro della bocca come James Dean, giocavano all’italiana mentre i bocie all’americana (ultima palla da imbucare la n° 8) o a 125.
Ma il vero mito non era la sala giochi, ma il suo titolare: “Lino”. Dovessi rappresentarlo incontrerei gli stessi problemi di Kant con il noumeno, in quanto oltre la mia capacità di conoscere e di definire la realtà.
Ma perchè non provarci ed arrischiare un identikit?. Se avessi dovuto attribuirgli un’età mi sarei trovato in difficoltà. Era un uomo senza tempo: quaranta, cinquant’anni? Calvo e glabro, panciuto, dal viso tondo e lo sguardo sfidante. La voce tonante ma che incespicava nel suono della t pronunciata con la lingua tra i denti, alla stregua del fonema anglosassone th, che per settimane, già alle medie, i professori di inglese spiegavano e rispiegavano, tormentandoci come l’insegnante di Pink … hey, teacher leave those kids alone.
Le sue urla “non batthere” provenienti dal locale della cassa, dove era uso schiacciare pisolini sopra una sdraio dai fili in plastica, indirizzate ai biliardisti che sbattevano la stecca sopra il tavolo, erano il suo segno distintivo che noi, vigliaccamente, imitavamo ogniqualvolta ve ne fosse stata la possibilità. Insomma, qualcuno avrebbe detto un tipo poco affabile se la fisiognomica ha un significato.
In realtà era solo un uomo che cercava onestamente di gestire la propria attività gestendo centinaia di ragazzi anzi centinaia di diavoli scatenati
La piscina di Via Ferrarin
Arrivava l’estate, finiva la scuola ed uno dei principali centri di aggregazione diventava la piscina. Alcuni preferivano Livelon, sfidando pantegane e leptospirosi, la spiaggia low cost dei Vicentini, sul fiume Bacchiglione a Polegge, oggi non più frequentata dagli autoctoni ma da badanti dell’est, ma la piscina comunale rimaneva il punto fondamentale di incontro estivo di noi boomers.
All’epoca (fine anni 70) non esistevano fantasmagorici scivoli o giochi d’acqua (il primo parco acquatico, almeno quello più limitrofo alla nostra città, nasceva infatti tra il 1980 ed il 1983: il Caneva, sulla costa orientale del Lago di Garda) ma solo le vasche.
Ce n’erano ben quattro in luogo dell’unica rimasta oggi oltre alla pocia per l’arrivo dello scivolo, in quanto si è fatto posto successivamente all’impianto natatorio al coperto. Tre occupavano il sedime dell’odierna, predetta, struttura coperta: la prima vasca di 15/25 mt (non ricordo esattamente la lunghezza) profonda fino ai 2 mt. e 40 cm. Non si toccava da nessuna parte a meno che non ci fosse un watusso ed utilizzata pertanto solo dai nuotatori provetti; la seconda, molto stretta, quasi una striscia, profonda 1 mt., lunga circa una decina di metri e larga tre o quattro; la terza piccolina riservata ai bimbi; la quarta, l’attualmente esistente, olimpionica.
Un solo chiosco per gelati, bibite e panini, all’estremità dell’entrata, nessun ombrellone e nessuna sdraio. Buttavamo l’asciugamano sulle lastre di cemento circondanti la piscina olimpionica, che in agosto diventavano pietre ollari incandescenti procuranti scottature di terzo grado ed il cui dolore veniva lenito solo dopo un tuffo, e prendevamo il sole con i nostri (finti) Rayban, costume a banda larga e con a fianco il mitico stereo (chiamato proprio semplicemente così … ciò porta ti lo stereo chel mio non se taca!)
ossia il mangiacassette/radio. Ah, fondamentale: nessuna crema solare.
Figuriamoci! Pensate voi se dei ragazzi di 16/17 anni avrebbero potuto spalmarsela vicendevolmente davanti alle ragazze: avremmo preferito il ricovero presso il CGU (Centro Grandi Ustionati di Cesena) finanche la morte.
Pertanto le medesime compagnie di ragazzi che di sera si radunavano nei propri quartieri, di giorno si spostavano in piscina con l’unico e solo intento: conosser toxe!
Ecco che c’era quello che, davanti a loro, metteva in mostra le proprie capacità natatorie ( crawl, dorso, delfino, farfalla, Mark Spitz era un anatroccolo al confronto, …. no la rana no non era sensuale e macha), chi tacava boton con la solita banalissima scusa di un gelato, chi invece senza coraggio camminava in vasca per tutto il pomeriggio con l’amico a decidere chi doveva fare il primo passo ( va ti … no va ti … no te go dito che toca a ti … vanti vado mi però vien anca ti… macché, poi non ci andava nessuno, avere un incontro con Paolo VI sarebbe stato più facile). Il pomeriggio così scorreva veloce ed il ritorno a casa costituiva solo un pit stop perché immediatamente si riusciva, la sera era piccola per noi!
Cisco
Di personaggi particolari come Lino, Vicenza ne ha avuti diversi, passando da Geremia a Scotolati, ma quello più vicino ai baby boomers fu senz’altro Cisco, Aldo Cegalin per l’anagrafe. Morto nel 2018 a 95 anni. Il “nostro” commerciante ambulante di dolciumi e gelati. Lo trovavi davanti all’ospedale con la sua Ape Arancione oppure al parco giochi di Campo Marzo con il suo carrettino bianco a mano. Il gelato più buono? El mistareo, tutti i frutti messi sopra al cioccolato. Era il gusto del Paradiso ci diceva. Ma ciò che mangiavamo con avidità erano i suoi caramei, che lui conservava all’interno di una bachechina in vetroì che poi appoggiava su un trepiedi: il suo banco di vendita itinerante.
I caramei non erano altro che spiedini di uvetta, noci, prugne, albicocche e addirittura peperoni, il gusto più deciso, che venivano caramellati. E quando li mangiavamoì schioccavano nelle nostre bocche: una delizia del palato. Cisco poi aveva un sacchetto con i numeri della tombola, per chi amava il gioco d’azzardo, o si faceva pari o dispari. Se vincevi, raddoppiavi l’investimento in caramei. Chi non li ha mangiati allora e, purtroppo, oggi, chi non li può più assaggiare, non ha assaporato quanto dolce sia stata, grazie a Lui, Vicenza, Città Bellissima! Grazie Aldo per averci regalato una “dolce” gioventù!