Noi, boomers. Tra dress code, simboli e stelle abusive

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Giubbetto jeans con linguaccia dei Rolling Stones
Giubbetto jeans con linguaccia dei Rolling Stones

(Articolo sui boomers vicentini da Vicenza  Più Viva n. 4, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).

Parlare della generazione boomer vicentina implicherebbe necessariamente una dissertazione amplissima. Ma per ravvivare la memoria di tutti coloro che vissero quegli anni concentrarsi su pochi e distintivi aneddoti e fatti, risulta la cosa migliore da farsi. Tanto più che qualcuno tra i miei più cari amici boomer (non posso fare il nome, anche se capisco la vostra curiosità. Violerei decine di norme sulla privacy) già ora denuncia disorientamenti e neurodegenerazioni progressive :0). Si basti pensare che, ancora anni or sono (quindi – specifichiamo – non oggi alla veneranda età di 60 anni), in una serata revival in discoteca, quando egli rincontrò una sua vecchia morosa, considerata da tutti carina già all’epoca e rimasta tale pur nel passare dei lustri, se ne uscì con un: chi sei? Lasciandoci basiti, ammutoliti nonché dispiaciuti per la signora, che quasi se ne risentì.
Ma vabbè caro amico mio, tempus fugit (per te sicuramente più veloce!).

Come ci si vestiva: il dress code

Primo ed assoluto postulato: un ossimoro. Non vestivamo con grandi firme, anzi le snobbavamo, in quanto ritenute non alla moda (povero me, se mi leggesse un Armani o un Versace). Se il chiodo nero in pelle ha rappresentato il simbolo degli anni ‘50 appartenente ai greasers, il giubbetto in jeans diventò quello dei boomers. Rigorosamente con impressa sulla schiena la linguaccia dei Rolling Stones, la lips e tongue, ispirata alla bocca di Jagger ed alla lingua della dea indiana Kalì.
Tutti ne possedevano uno, indipendentemente fosse Levis o Wrangler o qualsivoglia altra linea. La sera, al Boris (l’autoscontro mito della Fiera degli oto), sembravamo appartenere ad un unico esercito.
Questo giubbetto veniva indossato dalla moltitudine dei ragazzi, quasi fosse una divisa, anzi, era una uniforme. Regalava un senso di appartenenza, era uguale per tutti, davanti e dietro, destra e sinistra, l’espressione palindroma del vestire boomeriano, alla stregua di quelle letterarie leggibili da entrambe le parti : “i topi non avevano nipoti” o meglio “o mordo tua nuora o aro un autodromo”.
Le scarpe, rigorosamente da ginnastica. Non esisteva certo l’offerta, la varietà di oggi. Le Superga venivano considerate il top. Punto!. Il problema? I destabilizzanti lavaggi di mamma ai quali si doveva fuggire come Morris ed Anglin da Alcatraz nel ‘62, al fine di garantirti l’uscita serale in divisa. («Vieni qua che devo buttare il giubbetto in lavatrice perché puzza come un “cavaron”. Da quanto non lo lavi eh? Una settimana? Eh no dai, l’hai già lavato il mese scorso, stasera devo uscire. Che faccio indosso il montone? Mi metto un po’ di deodorante Gillette di papà e fine dea discussion…. ci vorranno due giorni
prima che il Jeans si asciughi … », mica c’era l’asciugatrice … si doveva confidare in Bernacca!).

I simboli

Non dilunghiamoci. Ce n’erano a centinaia. È sufficiente ricordarne tre, quelli per antonomasia, iconici ed afferenti i motori: la VESPA PX (dei bravi ragazzi di famiglia) ed ET3 (dei ganzi ) nonché il CABALLERO. Ebbi la fortuna di avere la PX nel 1980. Acquistata da Chiarello per la non cosi miserevole cifra di allora di 1.150.000 lire. Le consegne avvenivano da 6 mesi ad un anno dall’ordine, segno evidente dell’enorme richiesta dei boomers, di quanto costituisse il simbolo del tempo.
L’ordinai a marzo e mi arrivò a Novembre e nemmeno il colore che avevo richiesto, l’azzurro. Chiarello Motori, allora in corso Padova davanti a Magaraggia Sport, mi telefonò dicendomi: guarda è arrivata bianca e non azzurra, ti va bene lo stesso? Altrimenti la consegno ad un altro e tu devi aspettare ancora.

Il Caballero della Fantic Motor
Il Caballero della Fantic Motor

Seeee, tempo venti minuti ed ero in concessionaria per il ritiro. Ma successe un’autentica disgrazia, una di quelle che segnano per sempre la tua vita, una cicatrice indelebile della quale ancora oggi porto i segni, se sono qui a scriverla.
La PX, non leggera come l’ET3, non era molto agile da posizionare sul cavalletto, fino a quando non ne avevi appreso la tecnica ossia semplicemente mettere un piede a fianco di una gambetta per l’appunto del cavalletto e poi tirare con le mani il manubrio verso se stessi. E taac il gioco era fatto.
Io quel maledetto giorno di novembre la tecnica non l’avevo ancora appresa. Portai fuori il mio gioiello o come diceva Gollum il mio tesoro dalla cancessionaria e tentai di metterla in sosta. Usando tutte le mie forze la Vespa non si alzava. Detti uno strattone e caddi malamente a terra, in mezzo alla strada, strisciando e ammaccando la bandinea laterale sinistra pensando “Dio mio perché mi hai abbandonato”! La Vespa ritornò immediatamente in officina per essere riverniciata dal carrozziere, pagando ulteriori 100.000 lire. Mio padre ne fu felice.
La VESPA ET3 invece era appannaggio dei boomers più ganzi, più tacaboton con le ragazze. Scooter 125 velocissimo (quasi i 90 Km/h) forse anche troppo rispetto il peso. Per renderlo ancora più cool si usava pizzicare un pezzo di una piccola cannuccia di plastica tra la le fessure della bandinea del motore cosicché l’aria che ne fuoriusciva ed entrava nella stessa producesse un fortissimo sibilo, simile a quello che viene emesso da un palloncino gonfiato a dismisura e poi sgonfiato.
Era il cartellino da visita del boomer motomunito di ET3, che nel gergo giovanile veniva chiamata potent tresp. A quanti ruzzoloni, quante cadute con questa moto ho assistito. In particolare modo quando il bel ganzo impennava e non riuscendo più a controllarla, stante la potenza, andava a schiantarsi sull’asfalto, trascinandola per metri e devastandone tutta la carrozzeria.

Vespa ET3
Vespa ET3

IL CABALLERO della Fantic Motor, 50 cc, due tempi, fuoristrada, carburatore Dell’Orto: la moto scoreggiona. Se un tuo amico la possedeva già lo sentivi quando partiva da casa. Ma chi l’aveva non l’abbandonava mai, come esistesse una sorta di simbiosi organica tra uomo e veicolo: un minotauro meccanico. E a dimostrazione di ciò ricordo in modo cristallino, come fosse oggi, una domenica uggiosa dell’ottobre 1979. Ore 14 pronti a prendere il tram che da Piazza Castello portava al Lago di Fimon per il solito pomeriggio in discoteca. Iniziò a piovere a dirotto e nessuno per tale motivo si azzardava a dire andiamo in moto. Fuorché
uno tra di noi, il citato minotauro, che per tutto il tragitto seguì il tram, mentre noi in fondo allo stesso lo vedevamo annegare (sganasciando da procurarsi i crampi alla mascella)
oltre che per la pioggia altresì a causa degli spruzzi sollevati dal bus: un eroe d’altri tempi, da decorazione al merito civile, nel suo giubbotto di candido velluto bianco. Immaginate voi come poteva essere diventato all’arrivo e lascio a Voi decidere se l’uomo o il giubbotto.

Vespa 150 PX
Vespa 150 PX

Le stelle abusive (ossia i gruppi di cantori del periodo natalizio).

Come sbarcare il lunario durante le festività natalizie con le sole 5000 lire alla settimana? Questo era il dilemma, l’amletico to be or not to be, che ci angustiava ogni anno considerato che qualche regalino bisognava pur farlo alla ragazzina, all’amico, ai genitori.
La soluzione geniale, la lampadina a fumetto di Pico de Paperis, di molte compagnie di boomers fu di una semplicità disarmante.
I gruppi parrocchiali, come anche oggi, erano usi uscire la settimana prima del giorno di Natale, per il Canto della Stella, per raccogliere offerte per la propria Chiesa. Per poi ovviamente dare il raccolto al Parroco.
E se li avessimo anticipati di una settimana, iniziando a cantare 15 giorni prima della Santa Festività, facendoci tutti i quartieri della città, spacciandoci per la Stella originale di ogni singola parrocchia?
L’equipaggiamento: due chitarre, un flauto, una borsa per le monete, un colluttorio per la voce. Ma l’idea venne immediatamente copiata, come detto in apertura, da moltissimi ragazzi. Ecco che a partire dal 15 di dicembre, o su per giù, le strade serali di Vicenza vedevano gruppi pseudocantautorali di strenne musicali natalizie pullulare la Città, talvolta addirittura incontrandosi e quindi contrattare la spartizione del territorio, alla caccia di oboli più o meno generosi.
Così, intonando Astro del Ciel, si suonavano i campanelli delle abitazioni:
– Siii?
– Stella!
– ….. (silenzio)
– Stella!
– Ma quaa Stea, mi non conosso
nessuna Stea!
– La Stella di Natale !
– Ndè cantare da n’altra parte!
Eh già! Talvolta le cose non sempre andavano bene, forse la giusta retribuzione, punizione per la birbanteria … Deus lo vult! Altre volte invece l’offerta risultava così consistente da lasciarci increduli.
Tutte le serate trovavano comunque epilogo seduti, sulle scalinate della basilica Palladiana a contar monete e mini assegni circolari e provvedere poi alla successiva spartizione, nella ferrea osservanza della regola del suum unicuique tribuere ( traduzione latino-veneto: uno mi, uno ti, uno mi, uno ti) tra gli abusivi cantori di Natale.E così un ulteriore anno boomer era passato!