Sono passate tre settimane dalla domenica di Pasqua. In questi 21 giorni si sono contati 54 morti nei luoghi di lavoro. Da inizio anno ad oggi, le lavoratrici e i lavoratori uccisi mentre lavoravano sono 205. Un numero impressionante. Un bollettino di guerra. Sono morte duecentocinque persone in nome del profitto. Perché si lavora troppo, in troppo pochi e male. Perché per sopravvivere con salari insufficienti non si bada alla stanchezza e si accettano ritmi di lavoro insostenibili. Perché la sicurezza è un costo che “lorpadroni” ritengono troppo alto per essere “competitivi”. Sempre più spesso si va al lavoro e non si ritorna.
Perché, per essere competitivi, si “deve correre” e si presta meno attenzione alla fatica e ai pericoli. Viviamo in un sistema brutale e indifferente che considera chi lavora nulla più di un ingranaggio di un meccanismo infernale che serve solo a produrre profitto individuale e non garantisce alcuna sicurezza.
Sempre più spesso si va al lavoro e non si ritorna. Ma tutto resta come sempre. Ci si rammarica della “tragica fatalità” e subito dopo si continua a sfruttare chi lavora, a imporre ritmi bestiali, a considerare le norme e i dispositivi di sicurezza orpelli che costano e basta. Inutili perché non servono a produrre profitto.
Noi restiamo attoniti e ci commuoviamo di fronte a ognuna di queste morti sul lavoro. Siamo coscienti della debolezza e della frammentazione di chi vive del proprio lavoro di fronte al potere e alla protervia padronale. Ma proprio per questo dovremmo asciugarci le lacrime e uscire nelle piazze a lottare. Non solo protestare ma pretendere di essere considerati persone e non cose. Pretendere che la Costituzione venga attuata nella sua interezza e che i diritti di chi lavora siano al primo posto di ogni programma e azione politica.
L’austerità la subiscano i padroni.
Noi vogliamo vivere e, per questo, dobbiamo unirci e lottare.
L’autore Giorgio Langella è il segretario del PCI – federazione regionale del Veneto