L’8 ottobre 2019 è una data che entrerà nei libri di storia. Con l’ultima votazione alla Camera dei deputati si è concluso, infatti, l’iter di modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione con la conseguente riduzione del numero di deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200, con una “sforbiciata” complessiva pari a 345 parlamentari. 567 i voti favorevoli, solo 14 i contrari. Praticamente impossibile mettersi di traverso a una riforma più volte e da più parti auspicata e anche recentemente tentata (con la riforma costituzionale di Renzi).
Tutto bene dunque? Forse. Dipende. Le incognite sono molte e non di poco conto. Da queste dipende la qualità della nostra democrazia.
Ma andiamo con ordine. La riforma era in qualche modo inevitabile anche se ci si è arrivati nel peggiore dei modi, ovvero senza avere idea verso quale assetto si sta andando. Ma nel nostro Paese sembra destino che le riforme avvengano per strappi e assestamenti successivi e non sulla base di un disegno complessivo e coerente.
Nel 1992 con Tangentopoli i partiti e i politici sono stati travolti da scandali, corruzione e malaffare. Da allora la classe politica arranca nel tentativo di recuperare un minimo di credibilità. Ma gli sforzi non sono stati particolarmente significativi e così nell’immaginario collettivo si è affermata l’idea della “casta”, espressione che, non per niente, è diventata un caso letterario con il fortunatissimo libro di Gianantonio Stella e Sergio Rizzo del 2007. I parlamentari sono visti come un gruppo di privilegiati, impegnati ad autopreservarsi e sostanzialmente inefficienti. Il taglio del numero dei parlamentari è dunque l’esito in qualche misura scritto e per questo, alla fine, in pochissimi, si sono opposti.
Compiuto questo atto ‘liberatorio’, occorreessere consapevoli che esso non ha risolto i problemi per i quali si è perseguita taleriduzione, anzi. Le cause della crisi di credibilità dei rappresentanti politici non sono toccate. Questo atteggiamento, infatti,non è legato al numero dei parlamentari, ma ad altri meccanismi a cominciare
dalle leggi elettorali che permettono la cooptazione di deputati e senatori, da parte dei capi partito. In questi anni si è, peraltro, cercato di rispondere al discredito con la personalizzazione della politica, una scorciatoia che, ci stiamo rendendo conto, se possibile amplifica le distorsioni del sistema.
La questione di fondo è capire che senso ha oggi la rappresentanza. Il parlamentare è o dovrebbe essere eletto come rappresentante nel senso che una volta eletto rappresenta tutta la comunità non solo chi lo ha eletto. Ben diverso dall’essere “portavoce”, come lo concepiscono i Cinque Stelle, che rappresenterebbe solo chi lo ha votato.
La rappresentanza nasce per governare la complessità che non può essere gestita con la democrazia diretta. Ci vuole un’azione di mediazione e di sintesi competente, capace di tener conto delle diverse istanze e dei differenti elementi che il singolo cittadino da solo non è in grado di fare. Eliminare la reppresentanza è chiudere con la democrazia così come l’abbiamo conosciuta. Per questo è decisivo sapere come verranno eletti i 600 nuovi parlamentari, come si garantirà la rappresentanza di tutte le componenti della società italiana, cosa si farà per dare maggiore efficienza e qualità ai lavori parlamentari.
Il taglio dei parlamentari è stato il prezzo pagato dalla politica per il proprio smarrimento. Ora però la democrazia rappresentativa va rafforza e non svuotata. Su questo occorre assolutamente vigilare.
La Voce dei Berici