di Michele Lucivero e Andrea Petracca
È lecito, quando mancano solo due mesi alla conclusione dell’anno scolastico, ammettere che il comparto istruzione ne esca con le ossa rotte dal primo anno dell’era COVID-19? Si può sostenere, con la scuola secondaria di II grado che riesce a raccattare la presenza del solo 50% della popolazione studentesca, che la scuola italiana non è stata in grado dall’inizio dell’emergenza sanitaria di garantire il diritto all’istruzione delle nostre studentesse e dei nostri studenti?
È possibile affermare che il paradigma inclusivo, che vorrebbe considerare le studentesse e gli studenti con Bisogni Educativi Speciali (BES) protagonisti attivi del proprio processo di crescita è rimasto, nei fatti, lettera morta, proprio nell’anno in cui quel paradigma avrebbe dovuto avere più senso?
Le domande, prive di retorica, sono poste in buona fede, senza secondi fini e aspetterebbero anche delle risposte serie. Nell’attesa che qualcuno risponda, noi non rinunciamo a farci una nostra idea, magari leggendo alcuni dati che mettono in discussione il ruolo di promozione dell’equità sociale che ancora vogliamo riconoscere alla scuola pubblica, laica e pluralistica.
Il «Corriere della Sera» del 29 marzo ha pubblicato un articolo dal titolo Scuole chiuse, in Italia 160 mila bambini sono rimasti senza cibo. Il senso di impotenza aumenta leggendo che «Su 40.160 edifici scolastici in Italia, solo 10.598 hanno una mensa». Emergono dal testo delle differenze abissali tra il Nord e il Sud del paese, infatti «in testa il Nord (la Liguria ha l’87% di istituti con mensa, seguita da Toscana all’85% e Valle d’Aosta all’84%) in coda il Sud (la meno virtuosa è la Sicilia col 10%, seguita dalla Puglia col 16%)».
Ci siamo davvero abituati a leggere queste differenze e a passare oltre come se le considerassimo ormai un’eredità scontata da tramandare alle generazioni future?
E, invece, dovremmo dirlo forte e chiaro che il diritto all’istruzione passa per la possibilità di tornare a vivere spazi educativi adeguati, pubblici; e dovremmo dirlo soprattutto adesso, perché lo scoppio della pandemia ci ha costretti ad abbandonare i luoghi pubblici e a rintanarci in quelli intimi, discriminanti, del privato.
Degli ultimi 12 mesi, con le scuole aperte a singhiozzo, oltre ad un aumento allarmante della dispersione scolastica, ci portiamo dietro un aumento drammatico della povertà minorile e un’emergenza alimentare collegata proprio alla chiusura delle mense scolastiche: secondo il rapporto di Save the Children, con la chiusura delle mense scolastiche, sarebbero almeno 160 mila i minori in Italia a rischio di poter consumare un pasto adeguato.
Eppure, non basta denunciare queste disuguaglianze per creare un fronte comune sulla riapertura delle scuole e ancora ci si divide tra chi vorrebbe rimanere al sicuro nella propria abitazione – fare lezione a distanza e attendere che tutto passi (la pandemia, la paura, l’ansia, la solitudine, l’emicrania) – e chi continua a manifestare per la riapertura delle scuole e l’archiviazione definitiva del tempo pieno in DaD, come misura insoddisfacente a livello didattico-educativo e sostanzialmente classista nell’efficacia della proposta.
Vorremmo essere ancora più espliciti: non fingiamo di credere che non esista un problema legato alla disparità tra scuole ambìte, dall’infanzia fino alla scrematura fatta alle superiori, e scuole di periferia, non tanto urbanistica, quanto sociale, economica, simbolica; in secondo luogo, da operatori scolastici dovremmo avere l’onestà intellettuale di ammettere che la pandemia ha mostrato un gap economico tra le famiglie degli studenti e delle studentesse che si è riversato in maniera speculare sulla DaD e sulla formazione dei rispettivi figli.
Nei licei e nelle scuole dei quartieri centrali delle città, frequentati dai figli e dalle figlie delle famiglie benestanti – un tempo si usava dire borghesia, ma rischiamo di essere anacronistici e troppo classisti, invece vorremmo far leva sulla disponibilità economica delle famiglie, non sulle classi sociali – in queste famiglie buone, insomma, non vi sono problemi di motivazione allo studio, di sostegno da parte dei genitori, di disponibilità di PC per ciascun alunno o alunna, nonché di spazi fisici, come la propria stanzetta, in cui poter studiare e collegarsi indisturbati.
Vorremmo, invece, invitarvi a prendere visione di come avviene perlopiù la DaD tra i ragazzi e le ragazze delle scuole di periferia e degli altri ordini di scuola superiore. Cominciamo dalla motivazione nei confronti delle possibilità che offre la scuola: è risaputo che, anche prima della pandemia, l’investimento che essi avevano nei confronti delle possibilità di ascesa sociale grazie alla scuola era assolutamente basso, figuriamoci con il palliativo della DaD.
Consideriamo, inoltre, che la disponibilità economica di molte famiglie non benestanti era già bassa prima della pandemia, ma la situazione è peggiorata e la situazione per molte famiglie di venditori ambulanti, camerieri e cuochi stagionali, lavoratori alla giornata, donne delle pulizie, è disastrosa e si fa fatica anche a pagare le bollette e a mangiare, per cui l’atmosfera in casa non è delle più agevoli per far entrare i compagni e i docenti a sindacarvi all’interno. Non deve essere bello, infatti, in molte circostanze, mostrarsi in DaD, quelle poche volte che capita, con il proprio cellulare – giacché il PC è un lusso per pochi – in monolocali tra la mamma che disfa il letto, la nonna che cucina, i fratellini piccoli che ciondolano per la casa – perché per loro non c’è DaD che tenga – e i cani, rigorosamente di grossa taglia, che abbaiano e saltano dappertutto. Sfido poi, a pretendere pure che tengano le telecamere e i microfoni accesi, affinché anche i docenti, che in fondo sono anche loro dei benestanti, possano toccare con mano la dignità intima violata di persone ridotte al lastrico.
Eh sì, bello il vostro elogio della DaD con richiami altisonanti e linguaggio forbito, ma vale solo per accademici e benestanti, per chi ha voce e sa scrivere, non per tutti gli altri che ancora non hanno imparato a scrivere e difficilmente, per dignità, più che altro, o per mancanza di canali adeguati, verranno a dirci come se la passano.
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a cura di Michele Lucivero
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