Ho già avuto occasione di sottolineare la gravità della vicenda – se vera e se conforme alle notizie di stampa – della cosiddetta Loggia Ungheria, i cui connotati, pur non sufficientemente conosciuti, evocano l’esistenza di occulti centri di potere, in grado di orientare l’assunzione di decisioni importanti nel nostro Paese, inquinandone le fonti. E ribadisco che l’esistenza, in siffatti contesti, di magistrati (ma anche di altri soggetti che pur dovrebbero essere “servitori dello Stato” ) è assolutamente incompatibile con le funzioni ad essi attribuite. Dunque, si deve sperare che le punizioni che pur dovranno essere loro riservate, a seguito dei dovuti accertamenti, siano particolarmente pesanti ed esemplari.
Ciò premesso, se dovessi prospettare una graduatoria di colpa (sotto il profilo etico e professionale) sulla base di quanto finora emerso, non esiterei ad indicare nel PM milanese Paolo Storari il maggior responsabile di tutta la vicenda e dell’ennesimo danno di immagine per la magistratura, accusata di essere troppo spesso al centro di opache manovre; per tacere, poi, dello squallido e tradizionale scaricabarile innescato appena si è avuta notizia dell’esistenza dei verbali dell’avvocato Amara e del loro presunto contenuto (a parte, ovviamente, l’imperdonabile colpa di chi, a quella loggia apparterrebbe davvero).
Anzitutto, mai egli avrebbe dovuto comunicare ad altri (a parte il capo del suo ufficio, Francesco Greco) il contenuto di quei documenti. E, se anche fosse stato convinto che il suo capo stesse ritardando di adottare le opportune iniziative giudiziarie per perseguire i reati ipotizzabili, egli avrebbe potuto (e dovuto) ricorrere ad altri rimedi, per ovviare ad un’eventuale colpevole inerzia: come ad una circostanziata, ma formale, segnalazione al Procuratore Generale (della Corte di Appello di Milano o della Cassazione) oppure al CSM inteso come organo collegiale.
La scelta di rivolgersi ad un solo suo componente, da lui stesso individuato in base ad un soggettivo parametro fiduciario (probabilmente di carattere correntizio) – Piercamillo Davigo – non mi pare corretta: è pur vero che il segreto investigativo potrebbe non valere per il CSM, ma questa eccezione dovrebbe riferirsi solo all’organo costituzionale, in sè, nella sua collegialità, e non anche ad un singolo suo membro, laico o togato che sia, individuato in base a scelte personali di chi, al segreto investigativo, era tenuto. E, quindi, la decisione del dott. Storari di confidarsi con Davigo non è un’esimente e non può essere invocata per negare una sua responsabilità (penale e disciplinare).
Né spettava a lui censurare le ragioni per le quali il suo capo (Francesco Greco) ritardava di attuare gli atti formali conseguenti alla prospettazione di un’ipotesi di reato, perché essi rientravano nella sfera discrezionale dell’Ufficio e non erano sindacabili da un sostituto procuratore. Sembra, quasi, che costui volesse inseguire un’occasione di protagonismo per smania di rendere palese un suo attivo ruolo nella scoperta di una grave e inquinante vicenda, magari per affrettare la punizione di più importanti magistrati o uomini di potere.
Meno censurabile mi pare il comportamento di Davigo, al quale può (sicuramente) rimproverarsi una (pur rilevante) leggerezza di condotta nel non aver tutelato adeguatamente la riservatezza di quei delicati verbali e nell’averne parlato con altri membri del CSM, come se, anziché di fatti gravi (corrispondenti a reati), fosse venuto a conoscenza di pettegolezzi, attraverso chiacchiere da bar.
E, poi, inevitabilmente, una buona parte della stampa si è scatenata solo contro Davigo, così cogliendo la ghiotta occasione di consumare una sorta di tardiva vendetta per il ruolo avuto dal Dottor Sottile nel perseguire molti degli attori della Tangentopoli milanese e per la sua nomea di indagatore manettaro
Giovanni Schiavon
ex magistrato
già presidente dei tribunali di Belluno e Treviso
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