Lo scorso 11 febbraio un consigliere regionale ligure denunciava sulla sua pagina Facebook una dicitura discriminatoria comparsa nel modulo per l’accesso alla vaccinazione anti-Covid della Asl 5 di La Spezia (Covid, omosessuali tra “categorie a rischio”: bufera su Asl La Spezia).
Tra le trenta categorie a rischio elencate nel documento, infatti, la numero 10 recitava letteralmente “Soggetto con comportamento a rischio (tossicodipendente, soggetto dedito alla prostituzione, omosessuale)”. Tra rimpalli di responsabilità per la clamorosa “svista” – se così la si vuole definire – e strumentalizzazioni politiche, si è scoperto che l’infelice espressione proveniva da un copia-incolla meccanico e distratto delle Specifiche funzionali dell’Anagrafe nazionale vaccini, contenute in un decreto del Ministero della Salute risalente al 2018.
Ma non è finita qui. È emerso anche che nel Piano nazionale di prevenzione vaccinale 2017-2019, dal quale le Specifiche funzionali derivavano, tra i soggetti ai quali si consigliava di effettuare il vaccino contro l’epatite A e B e contro il Papilloma Virus, comparivano gli “uomini che fanno sesso con uomini”.
Oltre ad insegnarci che il copia-incolla non è una scelta astuta, tale vicenda ci invita a riflettere sull’equivalenza fallace che sta alla base della formulazione linguistica in questione, ovvero la “categoria a rischio”. Lo stesso Ministero della Salute, con una nota stampa, ha fatto sapere che “sono solo i comportamenti a determinare il rischio, non certo l’orientamento sessuale”.
L’essere omosessuali non implica il fatto di essere automaticamente dei soggetti a rischio, così come l’immigrare in un altro paese non coincide con l’essere dei delinquenti. Ciò che può comportare un rischio è la condotta sessuale dell’individuo, a prescindere dal suo orientamento. Andando a monte e ragionando in astratto sulla faccenda, verrebbe inoltre da chiedersi quanto sia legittima una categorizzazione basata sull’orientamento sessuale, per di più in un documento ufficiale.
Questo episodio diviene ancor più significativo, per contrasto, se lo mettiamo in relazione con le attuali rivendicazioni linguistiche legate all’identità di genere. È ormai appurato che non binarismo, intersessualità, transessualità sono tutte espressioni dell’identità di genere, che chiedono di essere riconosciute dal punto di vista sociale, culturale e linguistico e che contribuiscono a scardinare un’altra equivalenza fallace, vale a dire quella tra sesso biologico e orientamento o preferenza sessuale.
Negli Stati Uniti, già da qualche anno, tra i parlanti (soprattutto tra i giovani) è emerso l’uso spontaneo del cosiddetto singular they, cioè del pronome di terza persona plurale (“essi”, “loro”, che in italiano suona molto più formale rispetto all’inglese) usato al singolare con lo scopo di riconoscere e rispettare l’esistenza di un terzo genere, oltre al maschile e al femminile. Soluzioni di questo tipo soddisfano i principi del linguaggio inclusivo applicati alla tematica dell’identità di genere. Il singular they viene inoltre utilizzato in contesti nei quali non si conosce o non è rilevante l’identità sessuale di una persona e, di conseguenza, il linguaggio assume un profilo neutro.
L’importanza della neutralità linguistica è stata colta con interesse dal mondo del marketing che, spinto dalle leggi del mercato e non da un improvviso anelito di solidarietà umana, ha intuito quanto contino per le nuove generazioni valori quali la multiculturalità e la fluidità di genere.
È in aumento, infatti, il numero di aziende che modificano il proprio storytelling, ideando pubblicità che abbattono stereotipi legati all’identità sessuale e culturale, e che prestano maggiore attenzione alla comunicazione con i clienti. Il cambiamento passa anche attraverso i messaggi commerciali e le newsletter che riceviamo. In luogo del classico “Grazie per esserti iscritto!”, connotato dal punto di vista del genere linguistico, la semplice perifrasi “Grazie, ti confermiamo la tua iscrizione!” consente di riformulare la frase in senso neutro ed inclusivo.
In fin dei conti, agli occhi di un produttore siamo tutti degli acquirenti indistinti, poco conta il nostro orientamento sessuale o il colore della nostra pelle. Forse, proprio grazie allo spunto che ci offre il marketing, riusciremo un giorno ad elevare l’inclusività oltre il piano economico e a portarla su quello prettamente umano della convivenza delle differenze.
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a cura di Michele Lucivero
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