La digitalizzazione e la transizione ecologica sono, assieme all’inclusione sociale,
i tre assi strategici, condivisi a livello europeo nell’ambito del Next Generation EU,
attorno ai quali si sviluppa il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Gli investimenti
e le riforme, a cui è destinato, da oggi al 2026, un ammontare di risorse straordinario
(191,5 miliardi, a cui si sommano 30,6 miliardi allocati mediante il Fondo complementare
istituito con il Decreto Legge n. 59 del 6 maggio 2021 e ulteriori 26 miliardi da utilizzare,
nei prossimi dieci anni per la realizzazione di opere specifiche e per il reintegro delle
risorse del Fondo Sviluppo e Coesione), mirano a colmare le gravi e ben note carenze
strutturali della nostra economia. La sfida, progettuale e realizzativa, che l’attuazione
del Piano comporta, è straordinaria; oltre a recuperare il terreno perduto a causa della
pandemia, si tratta di mettere solide e stabili basi per il ritorno su un sentiero di crescita
più sostenuta dell’economia e dell’occupazione.
Dai cambiamenti indotti dalla pandemia, dal progresso tecnologico e dalla
transizione ecologica possono derivare effetti non solo sull’attività economica, ma
anche sulla configurazione dei prezzi relativi e, almeno temporaneamente, sui tassi di
inflazione. Le implicazioni di questi cambiamenti devono pertanto essere attentamente
valutate da chi governa la politica monetaria.
Tutte le principali banche centrali del mondo, incluso l’Eurosistema, orientano
infatti i propri sforzi a garantire la stabilità dei prezzi al consumo, ossia a conseguire
un tasso di inflazione sufficientemente basso e stabile, tale da non interferire con
le decisioni economiche delle famiglie e delle imprese. Una dinamica dei prezzi
sufficientemente bassa e poco variabile contribuisce alla stabilità macroeconomica e
finanziaria, preserva il risparmio e sostiene gli investimenti, favorisce un’allocazione
efficiente delle risorse, la crescita dell’attività economica e l’occupazione.
La funzione di reazione della politica monetaria a variazioni inattese o
indesiderate dei prezzi dipende, tra gli altri fattori, dalla natura degli shock che
colpiscono l’economia. La banca centrale è certamente chiamata a intervenire nel
caso di shock di domanda tali da mettere a repentaglio la stabilità dei prezzi nel
medio periodo. Ad esempio, una politica di bilancio eccessivamente espansiva o uno
sproporzionato incremento del credito possono spingere consumi o investimenti
su valori non coerenti con il potenziale dell’economia, una variabile peraltro non
osservabile. Ciò può ripercuotersi sui salari e sui prezzi con il rischio di innescare una
spirale di aumenti. Misure restrittive di politica monetaria devono contrastare questo
rischio ponendo un freno al surriscaldamento dell’economia. Nel caso invece di una
restrizione creditizia generata da prolungata instabilità nei mercati finanziari la risposta
espansiva della politica monetaria deve mirare a evitare che effetti depressivi sulle
decisioni di investimento delle imprese e di consumo delle famiglie, inclusi gli acquisti
di beni durevoli, determinino tendenze deflazionistiche che potrebbero diventare
particolarmente gravi nel caso di amplificazioni causate dall’aumento dell’onere reale
degli interessi sui debiti in essere.
La reazione agli shock di offerta è invece soggetta a un trade-off, dato che questi
muovono i prezzi e l’attività economica in direzioni opposte, una situazione che non
può essere contrastata dall’azione della sola politica monetaria. Si tende perciò a
valutare che la banca centrale non debba reagire a shock di offerta, o quanto meno
debba farlo in modo molto cauto, intervenendo solo laddove si generino, mediante la
crescita dei salari o delle aspettative di inflazione, effetti “di secondo ordine” sui prezzi.
Questa forma di benign neglect può essere raccomandata nel caso di un aumento del
livello dei prezzi delle materie prime, non solo quando sia di natura temporanea ma
anche quando, inteso come permanente e inevitabile mutamento dei prezzi relativi
(e delle ragioni di scambio), si decida di assorbirlo – come una tassa non eludibile –
senza trasferirlo su altri prezzi e salari.
La gestione della politica monetaria non si riduce ovviamente a queste semplici
regole. Recenti studi suggeriscono, in particolare, che la banca centrale non debba
necessariamente rispondere a shock di domanda indotti da un cambiamento strutturale.
Questo è il caso di una variazione delle preferenze dei consumatori che riduce il
consumo per i prodotti di alcuni settori e lo accresce per altri. Assorbire tale shock
– che potrebbe materializzarsi, ad esempio, a seguito delle più marcate ripercussioni
della pandemia sulla domanda di alcuni servizi rispetto a quella di beni durevoli –
richiede infatti una variazione di salari e prezzi relativi, con un aumento nel secondo
settore rispetto al primo. In questo caso, pertanto, un’inflazione temporaneamente più
elevata non andrebbe contrastata, trattandosi di un incremento che facilita il necessario
riaggiustamento dei salari e dei prezzi e che consiste in una variazione “di livello”, con
effetti solo transitori sul “tasso di crescita” dei prezzi.
Più in generale, la banca centrale dovrebbe agire con prudenza nel contrastare
shock che appaiono avere una natura solo temporanea. I ritardi con i quali la politica
monetaria dispiega i propri effetti, mediante la trasmissione al credito e alla domanda
aggregata, sono infatti tali che il suo impatto sull’economia potrebbe materializzarsi
quando lo shock è già rientrato. La difficoltà di distinguere con successo un “rumore”,
ancorché prolungato, da un “segnale” di pressione sui prezzi non destinata a rientrare
in tempi brevi, con il rischio di produrre spirali al rialzo, può però essere in alcuni casi
elevata. Oggi disponiamo più che in passato di informazioni e strumenti utili a guidare
le decisioni di politica monetaria; come è ovvio queste decisioni terranno conto della
necessità di mantenere stabili le aspettative.
L’impatto effettivo della pandemia sull’attività produttiva e sui prezzi
Alla luce di tali considerazioni, è opportuno esaminare con attenzione le ripercussioni
che la pandemia sta ancora avendo sull’economia dell’area dell’euro. L’impatto appare
assai diversificato a livello settoriale: l’industria manifatturiera, dopo le chiusure disposte
durante la fase più acuta dei contagi, ha segnato una ripresa più rapida e la produzione si
colloca ora, sia per l’area nel suo complesso sia per l’Italia, su livelli superiori a quelli della
fine del 2019. I servizi, specialmente quelli che comportano maggiori contatti e relazioni
più strette tra le persone (come quelli ricreativi, ricettivi e turistici), hanno segnato
una caduta senza precedenti e ancora non hanno ripreso a operare a pieno regime; in
questo settore, pur in miglioramento, il valore aggiunto resta significativamente al di
sotto dei valori pre-pandemici sia nell’area dell’euro sia in Italia (del 3 e del 5 per cento,
rispettivamente, alla fine del secondo trimestre).
Come emerge anche dalle indagini della Banca d’Italia sulle famiglie, i consumi
restano particolarmente condizionati dai timori di contagio, soprattutto quelli legati al
turismo e al tempo libero, il cui peso sul totale è sceso l’anno passato da oltre il 21 a
meno del 17 per cento. In Italia, secondo i conti nazionali, la spesa complessiva per servizi
era ancora del 14 per cento più bassa nel secondo trimestre di quest’anno rispetto al
livello precedente lo scoppio della pandemia; la spesa in beni durevoli ha invece già
più che recuperato. Inoltre, sebbene la quota di popolazione vaccinata sia ampia nel
nostro paese, così come nel complesso dell’area dell’euro, la gravità della pandemia in
molte parti del globo rende il pieno ripristino dei flussi di turismo internazionale una
prospettiva ancora lontana.
L’inflazione si era indebolita in misura marcata nel 2020, scendendo nell’area
dell’euro e in Italia rispettivamente allo 0,3 e al -0,1 per cento nella media dell’anno. Vi
avevano contribuito soprattutto la forte caduta della domanda, specie nei servizi più
soggetti ai provvedimenti restrittivi introdotti per limitare il contagio, il connesso crollo
dei prezzi dell’energia e specifici provvedimenti adottati da alcuni governi, come il taglio
delle aliquote IVA attuato in Germania nel secondo semestre.
Dall’inizio del 2021 i prezzi alla produzione nel comparto industriale hanno però
iniziato ad accelerare, salendo in luglio di oltre il 10 per cento rispetto allo stesso mese
dello scorso anno sia in Italia sia nel complesso dell’area, a seguito del forte aumento
delle componenti dei beni energetici e di quelli intermedi. Secondo i sondaggi condotti
presso i responsabili degli acquisti delle imprese manifatturiere dell’area dell’euro, i costi
degli input hanno raggiunto in luglio il loro massimo storico, assestandosi poi nei mesi
seguenti; le imprese hanno inoltre segnalato un allungamento dei tempi di consegna,
in misura più rilevante in Germania, anche se si osserva un leggero miglioramento nei
più recenti giudizi. Vi hanno contribuito “strozzature” nell’offerta delle materie prime
e limitazioni nei trasporti, fattori determinati soprattutto dal persistere delle misure
adottate per contenere la pandemia a livello nazionale e globale. Al momento tali
strozzature sarebbero, peraltro, concentrate in pochi settori (come quelli nei quali
è intenso l’utilizzo di semiconduttori, prevalentemente i comparti tecnologico e
automobilistico) con particolare rilevanza per alcuni paesi (quali la Germania).
Le pressioni sui prezzi alla produzione dovrebbero rivelarsi temporanee e non
tradursi in un rialzo persistente dell’inflazione. Stime recenti indicano che il pass-through
dei prezzi alla produzione di beni intermedi su quelli al consumo di beni industriali (che
tiene conto anche del peso che questi beni hanno nei costi di produzione) sarebbe
piuttosto limitato, con una elasticità intorno a 0,1 sia per l’area sia per il nostro paese.
La dinamica salariale, anch’essa assai moderata, sembra al momento escludere
potenziali effetti di second’ordine dai salari ai prezzi. La crescita delle retribuzioni
contrattuali nel complesso dell’area è oggi decisamente inferiore al 2 per cento
(escludendo alcune componenti transitorie erogate in Germania); in Italia, dove non
supera l’1 per cento, la dinamica prevista dell’indice dei prezzi preso a riferimento
nell’ambito delle contrattazioni è ancora modesta (pari al 4 per cento nell’intero
quadriennio 2021-24). Gli ampi margini di forza lavoro inutilizzata dovrebbero inoltre
contribuire a contenere gli andamenti salariali nell’area dell’euro, come prevedono i
principali organismi internazionali, nonché, per la Germania, la Bundesbank (secondo
cui l’aumento dei salari contrattuali si manterrebbe al di sotto del 2 per cento
nel 2022).
L’insieme di queste valutazioni sulle prospettive per i prezzi è in linea con le
proiezioni formulate il mese scorso dello staff della BCE, secondo le quali l’attuale
rialzo dell’inflazione sarà perlopiù transitorio. La crescita dei prezzi al consumo si
collocherebbe al 2,2 per cento nella media dell’anno in corso, per poi flettere all’1,7 nel
2022, coerentemente con quanto previsto dagli analisti privati censiti da Consensus
Economics, e all’1,5 nel 2023, ben al di sotto quindi del tasso del 2 per cento considerato
dal Consiglio direttivo della BCE come il valore congruente con la definizione di
stabilità dei prezzi nel medio periodo. L’inflazione resterebbe debole anche al netto
della componente energetica e alimentare.
Indicazioni analoghe provengono dalle quotazioni delle attività finanziarie
indicizzate ai prezzi al consumo. Alla fine di settembre le aspettative di inflazione
desunte, per l’area dell’euro, dagli inflation swaps si collocavano al 2,8 per cento
sull’orizzonte a un anno e all’1,8 sia su quello tra uno e due anni in avanti sia su quello
tra cinque e dieci anni in avanti. Inoltre, in base ai prezzi delle opzioni la probabilità
di un’inflazione superiore al 2,5 per cento nella media dei prossimi cinque anni è oggi
pari a circa il 23 per cento, un valore che resta più contenuto di quello di un’inflazione
inferiore all’1,5 per cento (28 per cento).
Implicazioni e sfide per la politica monetaria
Il tema della prolungata bassa inflazione è stato, insieme a molti altri, al centro del
riesame della strategia di politica monetaria della BCE, terminato all’inizio dello scorso
luglio. Per rendere l’azione della banca centrale più chiara ed efficace, il Consiglio direttivo
ha stabilito di perseguire un obiettivo di inflazione del 2 per cento nel medio termine.
Questo obiettivo è simmetrico e non rappresenta un limite superiore: scostamenti negativi
e positivi sono ugualmente indesiderati. Il Consiglio ha altresì valutato che quando
l’economia opera in prossimità del limite inferiore effettivo dei tassi di interesse ufficiali,
per evitare che le deviazioni negative dell’inflazione dall’obiettivo si possano radicare
nelle aspettative e nelle decisioni di spesa, è necessaria un’azione di politica monetaria
più incisiva e persistente. Ciò potrà comportare un tasso di inflazione temporaneamente
e moderatamente al di sopra del 2 per cento.
Anche sulla base dell’esperienza dell’ultimo decennio, queste valutazioni hanno
contribuito a determinare l’attuale orientamento, particolarmente espansivo, della
politica monetaria, che si manterrà accomodante fino a quando necessario. Lo scorso
luglio abbiamo rivisto le indicazioni prospettiche sulla futura evoluzione dei tassi ufficiali
prefigurando che resteranno su livelli pari o inferiori a quelli correnti finché le prospettive
di inflazione non avranno raggiunto il 2 per cento ben prima della fine dell’orizzonte
(triennale) delle proiezioni; un risultato, questo, che dovrà essere valutato come durevole
e che dovrà essere accompagnato da progressi nell’inflazione “di fondo” sufficientemente
avanzati così da essere coerenti con il mantenimento della stabilità dei prezzi nel medio
periodo. Nei prossimi mesi continueremo a valutare attentamente tutte le opzioni
disponibili, incluse quelle riguardanti i programmi di acquisto, per garantire che i prezzi
al consumo si riportino, dopo tanti anni di debolezza, al più presto e stabilmente su tassi
di crescita in linea con il nostro obiettivo.
È certamente lecito chiedersi, anche alla luce degli aumenti dei prezzi osservati
negli ultimi mesi non solo nell’area dell’euro, quanto siamo vicini a raggiungere questo
obiettivo. Se il recente rialzo dell’inflazione appare essere in gran parte dovuto a
fattori temporanei e non vi sono oggi segnali di surriscaldamento negli andamenti dei
salari e delle aspettative sulla crescita dei prezzi, il rischio di un’inflazione più elevata
e persistente di quanto attualmente previsto va attentamente monitorato. Da un lato
pressioni sui prezzi moderatamente superiori a quanto atteso, anche se dovute solo a
“strozzature” nell’offerta, potrebbero portarci più velocemente verso l’obiettivo del 2 per
cento; dall’altro dobbiamo evitare che rialzi eccessivi e prolungati dei prezzi conseguenti
all’uscita dalla pandemia, peraltro ancora da perseguire con decisione soprattutto a livello
globale, possano radicarsi nei comportamenti e nelle aspettative. Questo ovviamente
non significa che non siamo consapevoli, anche sulla base dell’esperienza storica, dei
rischi per la stabilità dei prezzi come per quella finanziaria di una riduzione prematura
dello stimolo monetario.
Ma l’impatto della pandemia sulla dinamica dei prezzi è solo una delle sfide cui le
banche centrali oggi devono (e dovranno domani) far fronte. Così come negli ultimi anni,
anche nel prossimo futuro la dinamica dei prezzi e la gestione della politica monetaria
potranno essere influenzate in direzioni e con intensità non facilmente prevedibili da importanti fattori di medio-lungo periodo, quali le tendenze demografiche, i movimenti
nella distribuzione dei redditi, la transizione ecologica, i livelli elevati dei debiti pubblici
e privati.
Grandezze, o variabili, quali il tasso “naturale” di interesse (introdotto da Wicksell e
oggi alla base di molte delle analisi condotte con i modelli dinamici di equilibrio generale
“neo-keynesiani”) o l’“efficienza marginale” del capitale (da confrontare nell’analisi
del Keynes della Teoria generale con i tassi di interesse determinati sul mercato dalla
preferenza per la liquidità e dalla disponibilità di moneta) sono entrambe non osservabili.
Da queste grandezze, così come dai fattori menzionati in precedenza, derivano tuttavia
effetti su investimenti e risparmio tali da determinare, indipendentemente dall’aderire con
forza all’uno o all’altro schema teorico, la necessità di contrastare le tendenze deflattive
emerse negli ultimi anni con misure di politica monetaria fortemente espansive (o “non
convenzionali” nella definizione prevalsa negli ultimi decenni che considera convenzionali
interventi sui tassi di interesse controllabili, e controllati, dalla banca centrale).
Che si sia infatti trattato della morsa della “trappola della liquidità” o della sola
prossimità al “limite minimo” possibile (l’effective lower bound) per il tasso di interesse
nominale controllato dalla banca centrale (limite oggi addirittura negativo), la politica
monetaria ha reagito negli ultimi anni creando moneta attraverso acquisti massicci di
attività finanziarie (il “quantitative easing”). L’obiettivo della stabilità dei prezzi è andato
quindi di pari passo con la necessità di accrescere la domanda aggregata e contrastare
la disoccupazione. Nell’emergenza pandemica, che ancora stiamo vivendo, l’azione della
politica monetaria si è così affiancata a quella delle misure di bilancio (incluse in Europa
quelle, di natura strutturale, definite dal programma Next Generation EU), in un virtuoso
policy mix.
È ora intensa l’attività di ricerca volta a gettare luce sui possibili effetti dei
cambiamenti in corso nelle condizioni di fondo della società e dell’ecosistema.
Mi limiterò qui a poche considerazioni che danno conto della complessità delle questioni
da affrontare. Nell’ambito di uno schema di equilibrio generale nel quale ha rilievo, nel più
lungo periodo, la congruenza tra il prodotto e il suo potenziale, peraltro anch’esso non
osservabile, in un contesto di prezzi flessibili, un primo elemento di incertezza riguarda
le determinanti del tasso di interesse naturale da cui dipendono “i margini di manovra”
della banca centrale.
Pur con tutte le cautele del caso, le analisi empiriche concordano nel concludere
che negli ultimi decenni il tasso di interesse naturale è nettamente calato nelle principali
economie avanzate. La sua diminuzione sarebbe ascrivibile in prima battuta a fattori
demografici e tecnologici, all’aumento delle disuguaglianze e, a partire dalla crisi finanziaria
globale, a fattori finanziari, quali una maggiore avversione al rischio a livello globale e
un eccesso di risparmio nelle principali economie emergenti. È questo il fenomeno che
avrebbe progressivamente indotto le banche centrali a ridurre “il valore medio” dei tassi
ufficiali, fino a portarli, negli ultimi anni, in prossimità del loro limite inferiore. Ciò avrebbe
contribuito a limitare il possibile utilizzo dei tassi a breve termine per rispondere a shock
negativi, spingendo le banche centrali ad adottare un più ampio ventaglio di strumenti,
incluse le cosiddette misure non-convenzionali, tra cui l’acquisto di attività finanziarie.
Data l’incertezza sulle cause di questo fenomeno, è al momento difficile dire quali
potrebbe essere l’evoluzione futura del tasso naturale. Riforme strutturali orientate a
innalzare il potenziale di crescita dell’economia (e, direi anche, alla Keynes, la profittabilità
degli investimenti) e politiche di bilancio che mirino a una più equa distribuzione dei redditi,
ad esempio, potrebbero farlo aumentare facilitando i compiti della politica monetaria.
Al contrario, il permanere del tasso naturale sugli attuali livelli o una sua ulteriore
diminuzione continuerebbero a pesare sui margini di manovra a disposizione delle banche
centrali, obbligandole a individuare sempre nuove modalità di sostegno all’economia e alla
dinamica dei prezzi e rendendo particolarmente pericolosa la minaccia della deflazione.
Alcuni fattori strutturali non incidono solo sui margini di manovra della banca
centrale ma anche direttamente sulla dinamica dell’inflazione. È questo il caso della
transizione ecologica. Larga parte delle analisi disponibili tendono a suggerire che questo
processo potrebbe comportare un aumento dell’inflazione, che complicherebbe il lavoro
delle banche centrali, soprattutto nel caso in cui il quadro congiunturale dovesse rivelarsi
particolarmente debole. Studi recenti, anche di economisti della Banca d’Italia, indicano
tuttavia che, quando si tengono in conto gli effetti più generali di una carbon tax tale da
indurre una rapida, ancorché necessaria, transizione verso una economia a “emissioni
zero”, il suo impatto nelle prime fasi di aggiustamento potrebbe addirittura essere
deflattivo, anche in assenza di contemporanei incentivi che riducano i costi dell’energia
da fonti rinnovabili. La deflazione sarebbe il risultato delle ricadute negative della tassa
sull’attività economica, che potrebbe calare anche in misura marcata. A differenza di
quanto normalmente si sostiene, il problema per le banche centrali potrebbe quindi
essere quello di una inflazione troppo bassa, che acuirebbe i rischi di disancoraggio verso
il basso delle aspettative.
Con riferimento alle politiche da mettere in atto per conseguire l’obiettivo della
stabilità dei prezzi ed evitare squilibri sul piano finanziario andrà inoltre tenuto conto del
fatto che le banche centrali agiranno in un contesto in cui i debiti pubblici e privati sono
fortemente aumentati in quasi tutte le economie avanzate. Nel 2020 il rapporto tra debito
pubblico e prodotto è salito di 14 punti percentuali nell’area dell’euro, fino al 100 per
cento. L’alto debito costituisce una fragilità intrinseca: espone al rischio di shock finanziari,
crea una incertezza di fondo che si riflette sugli oneri di finanziamento e, in assenza
di decisi miglioramenti infrastrutturali, scoraggia gli investimenti privati. Esso tende
inoltre a complicare la fase di normalizzazione delle misure di politica monetaria.
Tuttavia, per il complesso dell’area e ancor più con riferimento al nostro paese,
se l’uscita dall’attuale fase ultra-espansiva procederà correttamente, quando la crescita
sarà più forte e l’inflazione più elevata, in linea con l’obiettivo della banca centrale,
il suo impatto sulla sostenibilità del debito pubblico non dovrebbe essere motivo di
preoccupazione. Grazie anche alla lunga maturità del debito pubblico, si potrebbe persino
realizzare uno scenario in cui anche con tassi di interesse più elevati, in un contesto di
crescita nominale sufficientemente forte, il ritmo di riduzione del rapporto tra debito
e prodotto acceleri, anziché rallentare. Una volta superata la crisi, i governi con uno
spazio fiscale limitato, come il nostro, dovranno però innalzare i saldi di bilancio primari e
diminuire l’incidenza del debito, anche sfruttando il differenziale attualmente favorevole
tra la crescita dell’economia e l’onere da interessi.
* * *
L’Eurosistema continuerà a garantire il necessario supporto all’economia finché
il mercato del lavoro resterà debole e il grado di capacità inutilizzata si manterrà
elevato. Quando verrà il momento, la sfida per la politica monetaria sarà quella di saper
correttamente tirare il freno, senza provocare inutili tensioni e restando comunque pronta
a premere di nuovo l’acceleratore qualora ciò tornasse necessario.
Molto inoltre dipenderà dalle decisioni di politica economica e di politica tout court
che si andranno a determinare nell’Unione europea e nell’area dell’euro nel prossimo
futuro. L’esperienza e la profondità delle conoscenze storiche di Marcello De Cecco, a
cui sono dedicate queste “giornate di economia” cui partecipo sempre con interesse,
sarebbero state di enorme aiuto nell’individuare le decisioni più giuste. La Banca d’Italia,
facendo anche tesoro delle sue riflessioni, sempre acute nel suo stile certo non prossimo
ai conformismi di maniera, continuerà a dare il suo contributo, anche mediante analisi
e ricerche, per fare in modo che questa fase, ancora incerta e difficile, sia superata con
successo.
Grafica e stampa a cura della Divisione Editoria e stampa della Banca d’Italia