Si è tenuto a Molfetta (BA) il 22 e il 23 ottobre scorso il Convegno dal titolo “Filosofia, concretezza, insegnamento in Pantaleo Carabellese”, che rappresenta, insieme all’ormai consueto appuntamento annuale del Certame carabellesiano, un’occasione per tornare sui passi del filosofo molfettese e riflettere in sinergia tra scuola, università e società civile sul significato, il ruolo e il compito della filosofia nell’epoca che stiamo vivendo.
L’evento è stato fortemente voluto dal prof. Alberto Altamura, docente di storia e filosofia presso i Licei “Einstein-Da Vinci” di Molfetta, e dalla prof.ssa Rossana De Gennaro, docente di filosofia e storia del Liceo “Da Vinci” di Bisceglie, i quali sin dal 2018 hanno riattivato una vecchia tradizione con il sostegno dell’Opera Pia Monte di Pietà e Confidenze, nella persona dell’Ingegnere Sergio de Ceglia, insieme alla Sezione di Bari della Società Filosofica Italiana, al Dipartimento di Studi Umanistici (DISUM) dell’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari e al Dipartimento di Filosofia, scienze sociali, umane e della formazione dell’Università degli Studi di Perugia, dove ci sono ancora accademici che portano avanti le ricerche storiche sul filosofo molfettese.
In realtà, come si diceva, si tratta di una tradizione di studi dedicata a Pantaleo Carabellese che è stata solo riattivata, dopo che si era interrotta nel 1977, in occasione del centenario della nascita del filosofo, quando l’amministrazione comunale presieduta da Beniamino Finocchiaro, senatore socialista e già Presidente della RAI, decise di avviare, avvalendosi della collaborazione degli studiosi che in quel momento erano i maggiori interpreti, allievi e prosecutori, anche critici, dell’opera di Carabellese, tra cui figurava anche il filosofo Giuseppe Semerari, alcune giornate di studio sui temi principali trattati dal filosofo molfettese.
Pantaleo Carabellese, laureatosi prima in Storia a Napoli e poi in Filosofia a Roma, è stato, strano a dirsi ai giorni nostri, insieme a Varisco e Martinetti (come si evince dal manuale di storia della filosofia di Ferdinando Albeggiani del 1935), uno dei maggiori protagonisti della filosofia italiana del primo Novecento, riferimento imprescindibile per gli studi kantiani nel nostro Paese.
Tuttavia, per una peculiare contingenza storica e politica, il suo pensiero si è ritrovato ad essere bollato come una “filosofia minoritaria”, questione sulla quale Marco Moschini (UNIPG) non manca di fissare, anche con ironia, la sua riflessione: cosa vuol dire, oggi come un secolo fa, che una filosofia è “minoritaria”? Forse che vende meno libri? Forse che non entra nell’Università e non ottiene il plauso, l’assenso dell’Accademia? Forse che si occupa di questioni marginali? O, forse, infine, che non si pone al servizio del potere, dello Stato e decide, come sostiene Vladimir Jankélévitch di occuparsi e di fare «cose non particolarmente utili»[1], senza essere serva di nient’altro?
La filosofia di Carabellese, in effetti, consegnata alla memoria storiografica come “ontologismo critico” arriva in un momento particolare della storia italiana, cioè quando il dibattito filosofico, nonostante la grande vitalità e ricchezza di temi, tra cui lo “spiritualismo” di derivazione perlopiù francese, il “positivismo” di marca principalmente anglosassone e altre correnti, risulta fortemente sclerotizzato intorno alla diatriba, o polemica, come viene definita dai relatori, tra “l’attualismo” di Giovanni Gentile, massimo interprete in Italia di Hegel, curvato però in funzione dell’esaltazione della dottrina fascista (anche quella insegnata in Italia per un ventennio), e lo “storicismo” di Benedetto Croce, il quale, alla fine, come argomenta magistralmente Ferruccio De Natale (UNIBA) nel suo intervento al Convegno, aveva ridotto la filosofia a metodologia della ricerca storica.
È per questo motivo che ritorna, con e attraverso le opere di Pantaleo Carabellese, l’interrogativo su Che cos’è la Filosofia, titolo di un suo testo del 1942, in cui si cerca di argomentare a proposito del ruolo, della funzione e dell’utilità della filosofia, a partire dai luoghi in cui essa si esercita, tutti elementi che non possono essere sottoposti ad una classificazione gerarchica che riesca a distinguere tra attività di pensiero che meritano il riconoscimento di maggioritarie e altre che sono costrette ad accontentarsi di essere minoritarie.
E, allora, alcuni punti fermi emergono prepotentemente dall’analisi che i relatori conducono sui testi di Carabellese: la filosofia, afferma Augusto Ponzio (UNIBA), non deve essere serva di alcuna scienza o di alcuna ideologia politica, anzi, essa deve essere “rigorosa” e, parafrasando Edmund Husserl, il filosofo-matematico che intese la fenomenologia come percorso necessario per fondare tanto le scienze naturali quanto le scienze dello spirito, si può concludere che la filosofia ha il compito di mettere costantemente in discussione tutte le altre scienze.
Non solo, nella sua concretezza e immediatezza nel cogliere la realtà, la filosofia non è in prima istanza un ragionare, espressione della razionalità universale, ma un intuire, in piena maturità e in piena consapevolezza, il senso di precarietà dell’esistenza, quell’apertura che rende possibile l’alterità. Si tratta, certamente, anche in questo caso, di un’esperienza universale, quale può essere, sottolinea Augusto Ponzio, l’esperienza dell’amore autentico, espressione radicale e dolorosa di trascendenza dell’alterità, quella che ci dovrebbe far dire davanti all’amato o all’amata: «tu sei qui eppure già mi manchi», invece che incartarsi con promesse statisticamente improbabili del tipo «ti amerò per sempre».
Ma un altro punto che emerge con forza dagli interventi di Mario De Pasquale, Sabino Lafasciano, Alberto Altamura e Rossana De Gennaro, e che dovrebbe far riflettere chi si trova nei luoghi ufficiali deputati all’esercizio della filosofia e chi distribuisce patenti di “esperti di filosofia” è legato anche alle modalità del suo insegnamento, cioè alla necessità di veicolare ai giovani, ma anche alle persone meno giovani che non hanno avuto mai accesso alla filosofia, un linguaggio che possa consentire loro di esprimere quell’immediatezza dell’alterità e quella concretezza che deve poi farsi principio di costruzione e di impegno etico e civile. E, da questo punto di vista, un presupposto fondamentale, per l’insegnamento della filosofia, ricordano i nomi appena citatati, insieme a Ferruccio De Natale, che possono vantare la fortuna di avere avuto come maestro comune Giuseppe Semerari, è la considerazione e l’attenta valutazione del pubblico che si ha davanti, al quale si parla, elemento indispensabile per evitare di parlarsi addosso e rischiare che la filosofia annoi e “diverga” piuttosto che accenda gli animi ed entusiasmi.
Certo, è evidente che oggi l’espressione “il mio maestro”, per indicare uno stretto rapporto accademico di prosecuzione ideale di intenti, di metodi e di indirizzi di ricerca, assume sempre più una connotazione nostalgica davanti all’inaridirsi della pratica dell’insegnamento accademico e scolastico: dovremmo forse ripensare, nell’ambito istituzionale, il ruolo del maestro, i luoghi, gli spazi e i metodi con cui si può fare filosofia in maniera autentica?
Oppure, semplicemente, potremmo fare filosofia ovunque, anche nella pubblica Agorà, ritornando a leggere Carabellese, quando egli ammoniva: «Il maestro, invece, maestro d’ogni arte e d’ogni sapere, deve sentire come maestro l’ansia di altri spiriti anelanti anch’essi alla conquista; deve sentire il pulsare di cuori, che non sono il suo cuore, ma che alla stessa pulsazione anelano. L’uomo comune, in breve, non si preoccupa che di concretarsi nella oggettività del suo vivere; l’uomo maestro ha invece la sua concretezza nel mettere in grado altri di raggiungere il concreto. È in questo “mettere in grado” la natura misteriosa e sublime dell’insegnare; essere buoni maestri vuol dire far bene questa opera di guida a persone, subordinando la nostra personalità alla formazione della loro»[2].
[1] V. Jankélévitch, Pensare la morte?, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995, p. 27.
[2] P. Carabellese, Che cos’è la filosofia, Angelo Signorelli Editore, Roma 1942, pp. 37-38.
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a cura di Michele Lucivero
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