laRepubblica: Paolo Scaroni in tribuna col pallone si scotta ma rinasce l’amico del Diavolo

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La salamandra non brucia quando attraversa il fuoco. L’immagine zoologica si addice al presidente del Milan Paolo Scaroni. Dirigente d’impresa cosmopolita ma anche provinciale (provincia di Vicenza), archetipo dei boiardi ultimi scorsi con patenti di governi di ogni colore, carriera cinquantennale di consulente-industriale-petroliere-banchiere passato senza una piega dalle infrastrutture al vetro, dall’elettricità alla geopolitica degli idrocarburi, poi alla finanza. Infine al calcio, passione di sempre che per il 71 enne veneto un altro ritorno in gloria dopo il biennio felice 1997-98 in cui presiedette l’ex Lanerossi dov’era esploso “Pablito” Rossi.

«Cambiare è l’unico modo per ringiovanire», disse lasciando l’Eni per tornare a Londra, in Rothschild come vicepresidente. Cambiare ma anche no, nell’eterna scena gatto pardesca che pare l’unico fondale perla classe dirigente italiana. Sempre amico dei poteri e pronto a risalire sull’onda, per l’abilità rara di gestire situazioni complesse senza compromettersi del tutto. Poco importa se talvolta i risultati delle aziende guidate non seguono lo storytelling della comunicazione, cui è attentissimo: come per i nove anni all’Eni, dove nel 2014 non fu rinnovato anche per le censure del Senato, poiché malgrado gli alti prezzi del greggio aveva reso meno delle rivali (tra Borsa e cedole il 4,23 per cento medio annuo, contro il 6,3 medio delle major). E aveva accresciuto la dipendenza nelle forniture da Paesi a rischio come Russia e Libia, mettendo la sordina alla pro dazio ne e al traguardo dei 2 milioni di barili al giorno (che solo oggi il successore Claudio Descalzi sta per cogliere), aumentando del 50 per cento il debito, specie per difendere le cedole ambite dal Tesoro. Poco importa – anche – se nel frattempo le inchieste giudiziarie sul suo conto fioccano e alcune vanno a processo. Scaroni resta un protagonista, e potrebbe rivelarsi l”uomo giusto per la resurrezione del Diavolo, che non trova pace dai tempi d’oro di Berlusconi. Sono pochi i dirigenti d’impresa della sua leva a vantare tante e così diversificate esperienze su più paesi e fronti. Dagli studi tra Bocconi e Columbia University al battesimo in Mc Kinsey, poi Chevron, Saint-Gobaiti a Parigi, la Techint dei Rocca, dove nasce l’amicizia con Luigi Bisignani decisiva per il suo percorso, e dove pare inciampa in Tangentopoli, fino all’arresto nel 1992 per tangenti al Psi. Notevole, ma poco noto, l’interrogatorio reso ad Antonio Di Pietro con cui il manager provò a cambiare pagina: «Intendo (…) riferire le ragioni per cui nel corso degli anni mi sono trovato costretto a versare del denaro al sistema dei partiti. Mi sono reso conto in questi mesi che vi è un fermento di trasparenza in Italia sotto l’incalzare dell’autorità giudiziaria tale da avermi fatto capire che il sistema è comunque finito. E allora, vista l’ineluttabilità delle cose, come imprenditore e cittadino ritengo più giusto che si arrivi rapidamente a un chiarimento complessivo dei rapporti tra imprese e partiti onde superare questa fase di stallo, che si è tradotta in una paralisi totale delle attività imprenditoriali, e cosi riprendere il cammino sotto l’aspetto dell’efficienza e della trasparenza, e quindi sotto il principio cardine dell’economia per cui deve vincere il migliore e non il più raccomandato». Inizialmente, con il supporto della famiglia Rocca, il manager riteme di applicare i nuovi principi a Londra, dove compii una brillante ri strutturazione dell avetraria Siv, e con la sua cessione a Pilkington, preludio del ritorno trionfale (2002) al monopolista elettrico -lo stesso da cui anni prima otteneva appalti e commesse di favore – e di qui all’Eni. In mezzo, posti nei cda che contano come Bae, Veolia, Generali, Borsa di Londra (vicepresidente). Nel 2014 l’addio a Eni, voluto dal nuovo premier-azionista Matteo Renzi; ma 40 giorni dopo già la nomina in Rothschild, ancora a Londra E prima del Milan, tante voci su ipotetiche candidature per i vertici di Uva, di Banca popolare di Vicenza in crisi, di chissà che altro. Con Berlusconi Scaroni ha tanto in comune oltre al tifo: la gioviale simpatia che lo rende uomo di mondo, sfruttata per farsi un’agenda globale ai massimi livelli della politica e del business; il senso pratico, molto italico, che non si arrende facilmente davanti ai problemi o ai vincoli formali; la mentalità da uomo d’impresa anzitutto, sull’esempio del padre Bruno che nel Dopoguerra creò Assindustria a Vicenza e ne fece una delle prime associazioni datoriali italiane. Due uomini fatti per piacersi: e nel periodo iniziato nel 2002 con la nomina all’Enel s’è visto quanto, ma è negli anni di capo dell’Eni che Scaroni ha reso inossidabile l’asse con il Cavaliere: fatto di usi generosi del budget di comunicazione e sponsorizzazioni dell’azienda (quasi 2 miliardi dï euro in tutto), di disponibilità a pagare l’autostrada libica del ‘Trattato di amicizia’ riparatore tra Berlusconi e Gheddafi, che nel 2008 impegnò la sola Eni aversare 250 ml. Nel metterlo al Milan, tuttavia, ha avuto più peso la parola del fondo statunitense Elliott, nuovo padrone della squadra dopo la conversione di un debito in capitale. «E un grande onore per me che sono milanista essere presidente della squadra», ha detto Scaroni, chiarendo di essere stato «scelto lo scorso anno (peraltro attraverso una società di executi reserch) per rappresentare Elliott in qualità di membro del cda». L’uso dei cacciatori di teste sembra, come spesso in casi simili, pleonastico, dato che nel network londinese di Scaroni il fondo Elliott è da tempo un perno. Lo rivela un aneddoto. Nel 2015 il manager, da poco vicepresidente della banca d’affari anglo-francese, aveva creato la società di consulenza Strategie investments, da lui controllata con il 60 percento delle quote, per il resto dall’amico di famiglia Alvise Alverà, il gestore di patrimoni in Svizzera. La società però fu liquidata in due mesi perché, come ha detto Scaroni nel verbale d’assemblea, era venuto meno «d’accordo con la Elliott Advisors 11k di Londra», e il patrimonio netto si era «ridotto di oltre un terzo in conseguenza della perdita che al 15 gennaio ammonta a 14.247 euro». I rapporti di amicizia con gli Alverà, dei giro cortinese dove pure Scaroni è di casa, sono così stretti che Marco, figlio di Alvise, ha lavorato dalla laurea perle aziende di Scaroni in Enel come suo assistente con rapida carriera, finita con quella dei mentore per approdare nel 2016 a Snam come ad. I rapporti con Elliott sono anche valsi a Scaroni e a Rothschild ruoli non formali di consulenza nella scalata del fondo al vertice di Telecom, coronata a maggio, e nel riassetto del Milan in corso. Ma anche i passati dossier Ilva e Versalis hanno visto il veterano di Rothschild all’opera. E chissà che prossimamente la sua esperienza non possa rivelarsi preziose anche nel caso in cui Elliott cerchi un clamoroso bis sulla galassia Mediobanca-Generali, uno dei dossier di recente passato sul tavolo di Paul Singer. Per ora sia il fondo sia Scaroni hanno smentito coinvolgimenti, e anche Rothschild ha fatto sapere di non essere coinvolta. Resta il fatto che nella Trieste del Leone Scaroni ha lasciato un pezzo di cuore: dal 2007 al 2014 è stato in consiglio, lasciando obtorto collo in seguito alla condanna in primo grado a tre anni per disastro ambientale sulla centrale Enel di Porto Tolle. Una beffa, anche perché nel gennaio 2017 Scaroni e tutti gli altri imputati sono stati assolti in appello, e la sentenza è stata confermata dalla Cassazione un anno dopo. La vicenda di Rovigo non è però l’unica macchia nel curriculum di una carriera vissuta intensamente. A partire dal patteggiamento in Techint, per un anno e quattro mesi (reato estinto per il diritto all’oblio: ma questo non cancella i fatti né, come scrisse il Senato nel 2014, «la memoria che tra l’altro forma la reputazione di un dirigente statale»). Per seguire con le imputazioni per corruzione internazionale sugli affari della controllata Saipem in Algeria, dove a settembre è attesa la sentenza di primo grado, e su quelli in Nigeria, di cui è appena cominciato il processo che vede imputato anche Descalzi. Scaroni si è sempre dichiarato «completamente estraneo ai fatti» contestati. Per nessuno di questi dossier giudiziari avrà alcuna rilevanza – almeno peri tifosi – se il Milan ramerà alle vittorie. E si chiuderà plasticamente il paradigma più caro all’Italia quando si parla di Stato e di mercato. 

di Andrea Greco da Repubblica Affari e Finanza