Nell’udienza di mercoledì 13 ottobre il Papa ha incontrato una delegazione di afgani portati in salvo dalla Ciano International, come già ampiamente documentato da ViPiu.it. La delegazione era guidata dall’amministratore delegato della Ciano Roberto Bruni (qui anche la denuncia sua e di chi scrive della inadeguata accoglienza di un Cas di Dueville, ndr) e da Gianpaolo Scarante, ex diplomatico, che ora è presidente del Cda della società (ha chiuso la carriera diplomatica nel 2015) e oggi tra i tanti incarichi è analista politico e commentatore oltre che Presidente dell’Ateneo Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia.
La giornata è iniziata con un’intervista a Silvia Sbrizio, manager della Ciano, a Uno Mattina (vedi dal 27° minuto di questo link), che nell’occasione era accompagnata da Akthar, uno dei rifugiati afgani. Silvia è una coordinatrice straordinaria, con la quale ho legato immediatamente (miracolo…), il cui nonno materno, Gaspare Slaviero, era nativo di Roana.
Alla fine dell’udienza il Papa ha voluto salutare personalmente la delegazione di Ciano International e si è soffermato con gli ospiti, elargendo carezze o buffetti ai bambini. Ha chiesto a Roberto Bruni di spiegare alcuni dettagli ed ha mostrato molto interesse per il gruppo, volendo sapere quanti fossero e dove erano stati trasferiti: una famiglia è già stata collocata in Germania ed una in Canada, gli altri nuclei sono in giro per l’Italia.
Papa Francesco si è interessato anche al lavoro a Kabul di Akthar che lavorava come capo magazziniere e amministrativo della Ciano nel magazzino-ufficio della Nato e, dopo averlo ascoltato, ha detto “Con quei baffi, sembra più un napoletano che un afgano!”-
Per volontà dell’azienda e del suo padre (ri)fondatore (un amico mio, non ho mai capito se vuole o meno essere menzionato, strano mondo quello dei filantropi) si cerca di dare ai rifugiati un sostegno, che va oltre a quello degli accordi internazionali in materia perché queste persone hanno bisogno di sentirsi prima esseri umani e poi rifugiati.
Purtroppo ci si scontra con la burocrazia e con i diktat: sono rifugiati politici e non emigranti economici. Si sono portati appresso solo una valigia vuota, ma piena di ricordi e di orrori, consapevoli di essere fortunati, perché il resto dei famigliari e gli amici non sono sotto tiro dei cecchini, ma peggio, sotto le lame dei tagliatori di gole.
Spesso è difficile amalgamare le promesse con la fattibilità, noi cerchiamo di farlo, anche andando contro le regole, se necessario. Questi rifugiati hanno bisogno di tutto, del calore di una voce amica, di una voce che ascolti. A volte mi sento dire che sono spendacciona: qualche giorno fa un conoscente mi ha detto “ma perché compri loro anche la piastra per i capelli?”. Perché conosco la paura, conosco la malattia, conosco il dolore. Se una piastra per capelli serve per alleviare la sofferenza, io compro una piastra per capelli. Perché hanno bisogno di un cellulare? Perché se sono maltrattati o se manca loro qualcosa, compongono il mio numero e mi chiamano. Se un malato terminale mi dice che con una buona pedicure si sente meglio, io vedo di fargli avere una buona pedicure seppur consapevole che non gli salverà la vita. Questa è l’accoglienza che conosco io, poca, non politicizzata, non indicizzata a successi personali o a percorsi professionali.
Ritorno a dire “accoglienza”, questa sconosciuta!