È un dibattito infinito ed ormai al limite dello stucchevole. È tutta una pantomima in cui gli attori cercano, di volta in volta, di trovare giustificazioni per la mancanza di consenso galoppante. È sempre colpa degli altri, chiunque essi siano. E chi, tra i pochissimi, prova a fare autocritica viene subito bollato nel migliore dei casi come vendicativo. Si arriva persino a dichiarazioni che hanno del paradossale, come è successo all’attuale leader dimissionario del Partito Democratico, che, a domanda precisa sui risultati delle ultime elezioni, si è lanciato in un calembour che manco il francese più raffinato: «Abbiamo avuto mandato dagli elettori per fare opposizione».
È come definire la squadra di calcio, perdente in un match, vincitrice del secondo posto.
Mi sono chiesta come sia possibile non rendersi conto dei limiti oggettivi di una sinistra che, anziché operare un sano discernimento sulle ragioni della sua crisi, continua a crogiolarsi nell’idea che forse i suoi valori non vanno più di moda, che forse l’insensibilità capitalistica ha indurito i cuori verso i deboli.
Tutte le pseudo analisi messe in atto partono, infatti, sempre dallo stesso blocco di partenza: la convinzione che i valori universali sono in crisi per colpa dei modelli culturali usa e getta declinati in ogni ambito, per colpa della scuola incapace, ormai, di intercettare le fragilità delle nuove generazioni e farvi fronte, per colpa degli adulti rinchiusi nel loro egoismo sempre più spiccato e solitario. Tutto insomma, purché non si guardi alla polvere nascosta sotto il tappeto di casa propria.
Ecco! Ecco, quindi, la chiave di lettura!
Il Partito Democratico è oggi il partito delle grandi città, il partito delle feste sulle terrazze romane più belle, dove tra un bicchiere di Sassicaia e uno di Château Margaux, con la fronte corrucciata di chi ci crede veramente, si lancia in affermazioni perentorie sulla necessità vitale di difendere le minoranze per una sana convivenza civile. Una sana convivenza civile!
Ora, posto che le minoranze sono tutelate dalla Costituzione e sono sicuramente la prova del nove di una democrazia, ma il sospetto che la sana convivenza civile passi anche attraverso il pane per sfamarsi e un letto caldo per riposarsi che fine ha fatto? La lotta per l’emancipazione dalla povertà tout court, per un Welfare che tuteli i poveri che aumentano a dismisura è o non è più un elemento identitario della sinistra?
E invece, siamo al punto in cui ci si batte per i diritti civili e ci si dimentica di quelli sociali, si difendono le minoranze se hanno la pelle nera o più scura, ma non ci si occupa più dei poveri che hanno lo stesso colore della pelle e ci si dimentica del tutto che la povertà e la miseria testimoniano il fallimento di qualunque progetto sociale, che abbia come obiettivo la realizzazione di uno schema di convivenza senza emarginati.
La conseguenza è un distacco sempre più incolmabile dalla vita ordinaria di milioni di concittadini, che stentano a capire la ragione per cui le loro vite siano diventate trasparenti. E quando si fa finta di lottare per i diritti civili dei migranti di vecchia e nuova generazione, quando si organizzano manifestazioni per dimostrare la necessità della parità di genere e della tutela di coloro che il genere lo cambiano durante il loro percorso di vita, sorge il dubbio che si tratti più di lotte necessarie per legittimare la medaglia auto assegnata di difensori dei deboli, piuttosto che la lotta consapevole di chi si fa scudo e spada per combattere contro le ineguaglianze sociali e culturali.
E allora il problema non è Giorgia Meloni che vince, anzi stravince, ma è valutare con obiettività cosa ha causato un astensionismo elettorale così elevato nel campo di chi ha creduto, per molto tempo, che il voto fosse un esercizio democratico non derogabile. E invece nulla di tutto questo.
L’analisi obiettiva, il discernimento consapevole di quello che non ha funzionato, la presa d’atto di non rappresentare più quel modello culturale che spingeva gli operai in massa a votare PCI, i più indifesi a rispecchiarsi in parole familiari e progetti condivisi, tutto questo ha ceduto il passo alla difesa dei propri privilegi, delle prebende, del nepotismo più sfacciato se non ci si vergogna più di candidare le proprie consorti anche se sconosciute ai più.
E allora forse bisognerebbe chiedersi che cosa ha scatenato la perdita di quei valori, che hanno caratterizzato per lustri politici come Alcide De Gasperi, Sandro Pertini, Enrico Berlinguer, per rimanere a nomi riconosciuti dall’intero emisfero parlamentare, ma ai quali possiamo aggiungerne molti altri. La risposta sta in una visione comunitaria della società, una visione in cui il pronome “noi” diventa faro dell’azione politica e l’azione politica, a sua volta, diventa esercizio per il bene comune, un cerchio che si chiude e in cui non c’è bisogno di una legge che codifichi l’incandidabilità di chi ha la fedina penale macchiata o di chi è in evidente conflitto di interessi o di chi non ha nessun titolo o competenza per ricoprire un ruolo istituzionale, ma ottiene quello per cui molti altri hanno studiato e faticato.
La conclusione amara è il baratro in cui siamo precipitati, a cui hanno contribuito tutti, incluso i cosiddetti rappresentanti del Partito Democratico e della sinistra, che sembrano aver scientemente scelto di occuparsi della cornice anziché del quadro, lasciando ai margini le lotte per la sopravvivenza psicofisica di una fetta di popolazione sempre più cospicua, a favore di battaglie che sono sicuramente fondamentali, ma che difficilmente possono essere percepite quando lo stomaco reclama il pane e il corpo il calore di una casa.
Eppure, viste le pubblicazioni e i curricula di molti esponenti del Partito Democratico, forse un ripasso dei dialoghi socratici potrebbe tornare utile laddove si afferma che se i fini della legislazione di una colonia immaginaria sono la felicità e la concordia dei cittadini, allora nella nuova polis, per garantire il conseguimento di tali scopi, non dovranno esserci né la gravosa povertà né la ricchezza[1].
[1] Cfr. Platone, Le leggi, Rizzoli, Milano 2005.
Di Antonella Maggi
Antonella Maggi è laureata in Lingue e Letteratura Straniere presso l’Università degli Studi di Bari e insegna Lingua Inglese nella scuola secondaria di primo grado. Ha collaborato alla stesura di numerosi progetti nell’ambito dei programmi di cooperazione internazionale (European Territorial Cooperation Programmes) e partecipa alla creazione, realizzazione e presentazione di attività editoriali. Il suo interesse per le modalità innovative nella didattica delle lingue straniere l’ha portata a studiare nuovi percorsi interdisciplinari, con l’obiettivo di sviluppare nei ragazzi la consapevolezza del loro ruolo di cittadini attivi anche in ambito europeo.
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a cura di Michele Lucivero
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