Patrick Zaki come Socrate. “Agorà. La Filosofia in Piazza”: sui limiti della carcerazione preventiva a partire da Beccaria

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Patrick Zaki come Socrate
Patrick Zaki come Socrate

Qualche giorno fa si è saputo che la custodia cautelare in carcere di Patrick Zaki in Egitto è stata prorogata di ulteriori quarantacinque giorni, portando ad oltre tredici mesi il periodo di detenzione preventiva a cui il giovane studente egiziano è tuttora sottoposto.

Le accuse formulate nei suoi confronti sono “incitamento alla protesta” e “istigazione a crimini terroristici” e sarebbero fondate su una decina di post di un account Facebook, che la difesa di Zaki considera “falso”, ma che potrebbero comportare una condanna fino a venticinque anni di carcere.

Senza volere entrare nel merito delle accuse, diverse ONG rimproverano al tribunale egiziano di detenere Zaki esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.

Premesso questo, a prescindere dalla fondatezza o meno delle accuse fabbricate dai giudici egiziani, questa vicenda induce ad una riflessione sui limiti della custodia cautelare.

La questione, in prima battuta, riguarda il seguente, amletico dilemma: nell’ipotesi di un colpevole solo presunto (come potrebbe essere Patrick Zaki), è più tollerabile limitarne la libertà – pur senza essere certi della sua effettiva colpevolezza – o assumersi invece i potenziali rischi connessi alla sua libera circolazione?

Risulta, infatti, complesso stabilire, a priori, cosa deve ritenersi maggiormente ammissibile per l’ordinamento di uno stato di diritto, viste le garanzie che questo offre alla posizione dell’imputato.

È evidente che l’applicazione della custodia cautelare, nel caso in cui venga successivamente accertata l’innocenza dell’imputato, produce una serie di danni che difficilmente potranno trovare un adeguato ristoro. In Italia, un risarcimento (peraltro solo parziale) può essere ottenuto in forza di quel criterio aritmetico di ideazione giurisprudenziale secondo il quale la somma indennizzabile per ogni giorno di ingiusta detenzione è pari a circa 230 euro al giorno.

È però altrettanto evidente che il totale rifiuto di forme di detenzione preventiva potrebbe determinare un serio pericolo per la collettività, specialmente in relazione a soggetti effettivamente caratterizzati da profili di pericolosità sociale.

Tornando al merito del “caso Zaki”, per poter comprendere le ragioni delle pressioni esercitate al fine di ottenere la sua scarcerazione, che assumono come presupposto l’illegittimità della custodia preventiva applicata, risulta utile un raffronto con quanto previsto dall’ordinamento italiano in tema di misure cautelari.

Senza pretese di esaustività, è sufficiente ricordare come l’applicazione delle predette misure debba, innanzitutto, rispondere a precise finalità dirette ad evitare circostanze e/o pericoli che il trascorrere del tempo potrebbe provocare. Il riferimento è, in particolare, all’inquinamento probatorio e al rischio di fuga dell’imputato.

Scriveva già Cesare Beccaria nel capitolo dedicato alla prontezza della pena che: «La strettezza del carcere [provvisorio] non può essere che la necessaria, o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti»[1].

Una prima (e forse la più antica) esemplificazione del pericolo di fuga può essere ricercata in un celebre dialogo platonico. L’episodio riguarda l’allievo Critone il quale, durante una visita in carcere, tenta di convincere il maestro Socrate alla fuga dal carcere ateniese: «Ebbene, abbandona questi timori: non è che chiedano tanto per salvarti portandoti via di qui, e poi non vedi come sono a buon mercato questi sicofanti? Neanche per loro ci vorrà molto» [2].

Come Patrick, anche Socrate, oltre 2400 anni fa, era stato infatti sottoposto a carcerazione preventiva nell’attesa del ritorno della nave sacra da Delo, condizione necessaria per poter procedere con la condanna. In entrambi i casi, e per certi versi paradossalmente, l’applicazione della più afflittiva delle misure cautelari vede come protagonisti, da un lato, un giovane attivista per i diritti umani e, dall’altro, il più saggio degli uomini (che, come è noto, deciderà di accettare la condanna a morte, non lasciandosi quindi persuadere dalle argomentazioni di Critone).

Abbandonando le sorti del maestro Socrate e proseguendo con l’analisi delle condizioni che, nell’ordinamento italiano, sono tese a limitare l’applicazione delle misure cautelari personali, è utile ricordare che, oltre ai presupposti sopra indicati (rischio di inquinamento probatorio, pericolo di fuga), deve essere valutata anche la gravità del delitto contestato e la presenza di gravi indizi di colpevolezza. È, inoltre, necessario anche il rispetto dei requisiti di adeguatezza della misura cautelare in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare, di proporzionalità alla gravità del fatto e di gradualità.

In forza di tali principi, la custodia cautelare in carcere dovrebbe, quantomeno in linea teorica nei paesi in cui vige uno stato di diritto, applicarsi esclusivamente qualora ogni altra misura cautelare (es. arresti domiciliari, obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, obbligo di dimora) risulti inadeguata, fungendo dunque da extrema ratio.

[1] C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Giuffrè, Milano 1973, p. 69.

[2] PLATONE, Critone, p. 3.


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a cura di Michele Lucivero

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