È il 1998 quando l’avvocato Robert Bilott, da pochi mesi allo studio Taft Stettinius & Hollister, riceve una telefonata da Parkersburg, West Virginia. A chiamarlo è un agricoltore, Wilbur Tennant, che gli racconta che le sue vacche stanno morendo. Bilott è esitante, non capisce esattamente chi sia e cosa voglia quella voce con un forte accento degli Appalachi. Tennant insiste, arriva anche a ricordare la nonna di Bilott, che viveva proprio in quella parte del West Virginia.
Alla fine ottiene un appuntamento: Tennant si presenta con delle foto, un video. C’è un ruscello con accumuli di schiuma bianca. Ci sono le carcasse di cervi e bovini, con il sangue che esce da naso e bocca. Il contadino ha pochi dubbi: la responsabilità è della DuPont, la società chimica che utilizza un terreno accanto alla proprietà di Tennant, per sversare materiale di scarto dalla produzione di Teflon.
Bilott accetta il caso. Lui, che fino ad allora aveva difeso le corporation, si mette dalla parte delle vittime di una delle corporation più potenti d’America. La battaglia legale dura anni: una class action di 70 mila persone che vivono accanto alla fabbrica che ha contaminato le acque di Parkersburg con alti valori di PFOA, l’acido perfluoroottanoico presente in decine di prodotti. Nel 2017, Bilott vince la causa: 3.535 persone ottengono un risarcimento di 671 milioni di dollari per tumori al rene, ai testicoli, alterazioni della tiroide, infertilità femminile, tutti problemi fisici causati da sostanze che DuPont aveva rilasciato consapevolmente nell’ambiente. Questa storia è ora diventata il film Dark Waters (con Mark Ruffalo nella parte di Bilott): ennesima, appassionante rivisitazione di uno dei grandi temi della cultura americana, il singolo in lotta contro un potere molto più grande di lui.
Robert Bilott, quando Tennant entrò nel suo studio, si aspettava ne sarebbe nata una delle più grandi class action di sempre?
Pensavo si sarebbe trattato di far rientrare DuPont nei limiti di legge per l’emissione di sostanze chimiche. Non fu così. DuPont sapeva fin dagli anni 50 della tossicità del PFOA. I tentativi di insabbiamento della verità andarono avanti per decenni.
DuPont ha smesso di utilizzare il PFOA nel 2013: una sua vittoria?
Solo in parte. DuPont ha sostituito il PFOA con prodotti con molecole a catena corta C4 e C6. Per esempio il Genx, che ora si trova nelle acque del North Carolina, del West Virginia e ovunque venga prodotto…
Qual è l’incidenza di questi agenti chimici?
Secondo gli ultimi studi, circa il 99% degli americani – neonati compresi – presenta queste sostanze nel sangue. Sono sostanze bioresistenti, che non vengono in nessun modo assimilate.
L’inquinamento riguarda anche e soprattutto le basi militari. Perché?
Perché il PFOA è utilizzato nelle schiume poliuretaniche usate nell’addestramento dei militari. È ormai certo che inquina le basi e i dintorni: è altamente cancerogeno. La Camera degli Stati Uniti sta pensando di bandirlo entro il 2029.
Qual è stata la reazione della politica e delle istituzioni Usa alla sua battaglia?
Dico solo che il 6 marzo 2001 ho notificato all’Epa, l’Agenzia federale per la protezione dell’ambiente, la necessità di fissare dei limiti al PFOA. Diciannove anni dopo, non c’è ancora nulla: 19 anni dopo! L’Epa ha annunciato solo la settimana scorsa di voler iniziare un processo per arrivare a fissare dei limiti alla presenza dei PFAS, le sostanze perfluoroalchiliche, nell’acqua potabile. Ma è solo l’inizio. Quando arriverà la fine?
È una battaglia solo americana?
No. Due anni fa sono stato in Veneto: il 65% delle persone su cui sono state effettuate analisi ha valori elevati di PFAS nel sangue. E la settimana scorsa l’Environmental Working Group ha pubblicato un rapporto agghiacciante sulla presenza di PFAS nell’acqua che milioni di americani bevono a Miami, a Washington, a Philadelphia. In gioco, purtroppo, c’è molto di più delle vacche morte di un agricoltore del West Virginia.