È appena terminato il pellegrinaggio di guarigione e riconciliazione del Pontefice in Canada per incontrare i rappresentanti delle popolazioni indigene, Inuit e Métis, che, tra il 1831 e il 1996, hanno subito, nei collegi voluti dal governo canadese e amministrati, per lo più, dalla Chiesa Cattolica (e Anglicana), un forzato e violento tentativo di sradicamento della cultura e della lingua delle popolazioni indigene.
Come era accaduto per gli aborigeni australiani, anche nel Canada gli organizzatori (cattolici, per lo più) delle strutture scolastiche, alle quali si erano rivolti i governi locali, hanno compiuto inenarrabili abusi per imporre ai giovani indigeni lingua, religioni, usi e costumi diversi da quelli della loro tradizione e appartenenza e, in conformità a quelli che erano i metodi educativi dell’epoca, ricorrendo, quasi sempre, ad abusi, violenze fisiche e sopraffazioni.
Di recente sono emersi inquietanti ritrovamenti, nelle adiacenze di queste strutture scolastiche residenziali indiane, di fosse comuni di bambini morti e di tombe anonime. Un orrore inaudito, che ha indotto il Pontefice a ricercare, giustamente, il perdono degli indigeni canadesi per gli abusi voluti dai governi coloniali locali, ma perpetrati anche dalle strutture ecclesiastiche; e, forse, anche a farsi carico di iniziative riparatrici, sul piano economico, a favore delle famiglie vittime dell’olocausto canadese.
Tutto giusto e tutto condivisibile, se non fosse che la richiesta di perdono per gli errori del (solo) passato rischia di offuscare qualsiasi sforzo di analisi delle (tante) colpe per condotte e scelte molto più recenti, se non anche attuali.
Intendo riferirmi, soprattutto, alle responsabilità politiche della chiesa per le persecuzioni ebraiche, all’ambiguo comportamento di tanti prelati di fronte agli orrori nazisti e dell’olocausto (si ricordi che molti grandi nazisti, tra cui Hitler, Goebbels, Himmler e tanti altri, erano cattolici: perché non scomunicarli?), al determinante aiuto prestato dalle organizzazioni della Chiesa per assicurare la fuga e l’impunità dei tantissimi criminali nazisti che, dopo la fine della guerra hanno trovato riparo e copertura nei Paesi (soprattutto sudamericani) governati da cattolicissimi ben noti dittatori di turno …
La storia ha ampiamente dimostrato che nell’organizzazione Odessa (acronimo tedesco di Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen, “Organizzazione degli ex membri delle SS“) e simili), hanno avuto un determinante ruolo proprio le strutture ecclesiastiche, come la cosiddetta via dei conventi (si presume con la complicità del Vaticano, magari anche credendo di fare opera di carità cristiana…). E, queste non sono forse colpe (gravissime) della Chiesa?
E che dire del problema (attualissimo) della gestione dell’Istituto Opere Religiose? Le vicende giudiziarie che hanno fatto seguito all’operato di Paul Marcinkus (il monsignore statunitense, figlio di un immigrato lituano, protagonista di una inspiegabile e rapida carriera ai vertici della Chiesa e dello stesso potente Istituto) sono costellate da continue ed evidenti reticenze del Vaticano, spesso maldestramente nascoste anche con un marcato abuso del principio di extraterritorialità, quando la giustizia italiana aveva cercato di far luce nelle inquietanti e opache vicende legate allo IOR.
Non dimentichiamo la scomparsa improvvisa e inaspettata di Papa Luciani, le tragiche e misteriose morti di Roberto Calvi e Michele Sindona, la colpevole tardiva sostituzione del tanto discusso Marcinkus ai vertici dell’Istituto Opere Religiose, stranamente indicato, per di più, come ingenua vittima, lui stesso, del “sistema finanziario”.
La Santa Sede sembra essere corsa ai ripari (anche per altre bufere giudiziarie, che hanno coinvolto le strutture finanziarie del Vaticano) con l’istituzione dell’Autorità di informazione finanziaria (Aif) da parte di Benedetto XVI e con altri recenti interventi riformatori; ma alcune scelte (anche sui nominativi delle persone poste ai vertici delle nuove strutture) sono apparse piuttosto opache e molto discutibili, all’insegna di una tradizionale opacità.
Il percorso di trasparenza intrapreso dalla Santa Sede è, ormai, un atto dovuto, ma rischia di essere vanificato dalle scelte delle persone.
È giusto ammettere gli errori del passato e chiedere scusa per le colpe storiche e per le violenze fisiche e teocratiche commesse dalla Chiesa. Ma, ha senso parlare ancora delle crociate, dell’appoggio della Chiesa al colonialismo (e, addirittura, allo schiavismo, con le scandalose benedizioni, da parte dei prelati cattolici, delle navi negriere), dei roghi delle streghe, delle torture della Santa Inquisizione, insomma delle stragi e delle persecuzioni di centinaia di anni orsono?
Perché la Chiesa non ha il coraggio di analizzare criticamente (ma con serietà e rispetto) i tanti gravi aspetti problematici del suo presente (o del suo più recente passato)? E’ proprio sicura la Santa Sede che, tuttora, la sua organizzazione finanziaria non venga utilizzata per operazioni illecite, come quelle del riciclaggio del denaro mafioso? E’ proprio sicura che anche gli uomini che essa ha preposto ai controlli abbiano la volontà e la capacità di far pulizia?
Gli esempi sono tanti e non spetta a me proporne un elenco esaustivo.
Solo così avrà un vero senso concreto il percorso di trasparenza annunciato dalla Santa Sede, ma, finora, attuato soprattutto, se non solo, per il passato (in molti casi proprio tanto remoto) come quello del Canada e dei suoi nativi.