L’Oscar agli Oscar. O meglio, il lungometraggio “Oscar”, del regista e giornalista vicentino Dennis Dellai, proiettato la notte prima degli Oscar a Hollywood.
Il film dedicato alla storia del musicista ebreo Oscar Klein rifugiatosi, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, nell’Alto Vicentino è stato scelto da “Los Angeles, Italia – Film Fashion and Art Fest”, festival organizzato dall’Istituto Capri nel Mondo con il Ministero italiano dei beni artistici e culturali, per essere proiettato al Chinese Theatre di Hollywood, lungo la celebre “Walk of fame” l’8 febbraio. Il giorno successivo, al Dolby Theatre avverrà la consegna dei premi Oscar.
Come ha appreso la notizia di “Oscar” a Los Angeles?
«La conferma che il film era stato scelto l’ho avuta durante una riunione di lavoro – racconta Dellai, 58 anni, redattore de Il Giornale di Vicenza e già autore di diversi film e cortometraggi -. Credo se ne siano accorti anche i colleghi nel vedermi con gli occhi stralunati, eccesso di sudorazione e delirium tremens galoppante. L’ufficialità è arrivata da Roma, via Whatsapp, e confesso che ho ancora paura di rivedere la risposta che ho dato all’organizzazione, perché credo di non essere riuscito a mettere insieme più di due sillabe in maniera corretta».
Perché hanno scelto il film, secondo lei?
«Credo che il film sia risultato interessante per la storia che racconta, che poi è una storia universale e drammaticamente attuale. Mi riferisco alla tragedia della Shoah. Probabilmente è risultato fondamentale anche il fatto che il film venga da una micro produzione (Progetto Cinema), pur mantenendo un impianto e un allestimento scenico tipico dei lungometraggi con grandi budget. Sono stati impegnati aerei, mezzi cingolati, circa mille comparse, un treno merci d’epoca e molto materiale recuperato da collezionisti della zona. Infine, il cammeo di Mariano Rigillo (noto attore italiano di cinema, teatro e televisione, ndr) si è rivelato senza dubbio un valore aggiunto».
Alla consegna della statuetta degli Oscar i premiati ringraziano. Lei chi si sente di ringraziare per essere arrivato dove è ora?
«Dovrei ringraziare un milione di persone, ma credo che non ne avrò il tempo. Devo tantissimo al gruppo di Progetto Cinema, una famiglia per me, amici appassionati di cinema e storia con i quali ho condiviso tutto e dai quali ho ricevuto la spinta per andare avanti anche nei momenti difficili. E poi gli imprenditori (pochissimi e, fra questi, Gianni Costantini) che mi hanno sovvenzionato, visto che non abbiamo usato soldi pubblici. Infine gli attori, le comparse e le comunità dove andavamo a girare, sempre disponibili a darci una mano».
Facciamo un salto indietro nel tempo: come è diventato regista?
«La mia passione per la regia risale a quando avevo 15 anni. A 17 ho ricevuto la mia prima cinepresa e ho girato un corto ambientato nella malavita. A quei tempi andavano tanto i polizieschi all’italiana e io mi ispiravo a quelli. Conservo ancora la copia di quel filmino in pellicola super 8 in un cassetto del mio studio».
Ora che cinema cerca di fare?
«Ho sempre avuto un’idea chiara di quale debba essere il mio cinema. Visto e considerato che non possiamo fare concorrenza alle grandi produzioni, dobbiamo ritagliarci il nostro spazio raccontando storie del territorio, storie vere e magari sconosciute, com’è stato per “Oscar”».
Cosa la irrita del cinema di oggi e cosa invece apprezza?
«Mi infastidisce ciò che sta dietro il cinema, specie in Italia, dove l’elargizione dei fondi pubblici segue un circolo vizioso, per cui spesso sono i soliti noti a beneficiarne. Il mondo del cinema (non è l’unico) è un mondo molto chiuso e autoreferenziale. Una cosa che apprezzo molto è sedermi su una poltrona di una sala e gustarmi un film sul grande schermo. Non c’è tv che regga».
Attorno al mondo cinema ruotano sempre aneddoti simpatici e, talvolta, strani. Ne ha uno da raccontarci?
«Avrei decine di aneddoti. Un giorno ho rischiato la morte mentre addentavo un panino. Eravamo in pausa e dovevamo girare una scena particolarmente complicata con partigiani che fuggivano mentre venivano bombardati dai tedeschi. Il mio esperto di esplosivi, Davide Viero, aveva piazzato delle cariche sul terreno che saltavano quando veniva premuto il tasto di un telecomando. Aveva messo il maledetto tastierino nella tasca posteriore dei jeans, ma se ne era dimenticato. Quando si è seduto per mangiare il suo sandwich è esplosa una bomba a pochi metri dal sottoscritto. Ci ridiamo ancora su, ma vi assicuro che in quel momento me la sono vista brutta».