Precarizzare il lavoro è stato un errore: lo dice la Banca d’Italia

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Banca d'Italia e sinistra antagonista, precarizzare è stato un errore
Banca d'Italia e sinistra antagonista, precarizzare è stato un errore

La Banca d’Italia afferma oggi ciò che la sinistra antagonista sosteneva venti anni fa: con la precarizzazione del lavoro le imprese aumentano i profitti, i/le lavoratori/trici rimangono disoccupatə.

Qualche anno fa (forse un paio di decenni sono già trascorsi) la sinistra radicale e antagonista rimase isolata davanti alla incomprensibile posizione assunta dalla sinistra democratica e liberale, incapace di cogliere le trasformazioni del capitalismo, legato a doppia mandata all’economia neoliberista e alle tendenze giuslavoriste. Si ritenne all’epoca che la sinistra, per essere democratica e al passo con i tempi, dovesse cogliere la sfida della modernità, aggiornarsi, abbandonare vetuste battaglie che mettevano al centro il lavoro e abbracciare l’economia di mercato.

E così la sinistra radicale, marginalizzata e ridicolizzata, si assunse da sola il compito di contrastare, talvolta anche con metodi sbagliati e inefficaci, la precarizzazione del lavoro condotta attraverso la legittimazione di una serie di contratti di lavoro subordinato che erano letteralmente ridicoli. La legge 14 febbraio 2003, n. 30, nota come legge Biagi, dal nome del promotore Marco Biagi, estese la platea dei contratti a tempo determinato, come i co.co.pro, il contratto di lavoro ripartito, intermittente, accessorio, occasionale e, per finire, a progetto. L’assunto di quegli indomiti e irriducibili comunisti, che contestarono aspramente quella frammentazione, era che la legittimazione giuridica dei contratti di lavoro a tempo determinato avrebbe generato una flessibilità con effetti devastanti sull’esistenza dei giovani, sui loro progetti di vita e, di conseguenza, sull’economia del paese, tutto a vantaggio di chi i capitali li aveva già nelle mani, cioè le imprese, che avrebbero moltiplicato i profitti.

Tuttavia, mentre la sinistra democratica si lanciava tra le braccia dei teorici del liberalismo e del liberismo, gli stessi liberisti americani, attratti dall’analisi marxiana sui limiti del capitalismo e sulle crisi ricorrenti, a 200 anni dalla nascita del vecchio barbuto cominciavano a studiarsi Il Capitale di Marx, anche nel solco del successo del bestseller Il capitale nel XXI secolo[1] dell’economista francese Thomas Piketty.

Ora, ci sarebbe seriamente da capire se oggi tra gli esponenti di punta di Banca d’Italia ci siano finiti per caso giovani marxisti in erba oppure se si può definitivamente mettere una pietra sulla perdente sinistra liberista italiana, incapace di fare previsioni e di avere una prospettiva economica aderente alla realtà, per cercare poi di costruire qualcosa di serio a sinistra, anche sulla scorta dell’esperienza francese.

Il fatto è che il n. 1390 di novembre 2022 della rivista ufficiale della Banca d’Italia, dal titolo “Gli effetti delle riforme parziali del mercato del lavoro: evidenza per l’Italia”, a cura di Diego Daruich, Sabrina Di Addario e Raffaele Saggio, disponibile rigorosamente in inglese, non lascia dubbi sul fatto che «la Riforma italiana del lavoro a partire dal 2001, togliendo i vincoli all’assunzione di lavoratori a tempo determinato, pur mantenendo rigide norme di tutela del lavoro per i dipendenti assunti sotto contratti a tempo indeterminato […] non è riuscita ad aumentare l’occupazione»[2]. L’evidenza dei dati in possesso dei ricercatori di Banca d’Italia (due dei quali stranamente afferenti ad università nordamericane) dimostra, dunque, che la frammentazione contrattuale, invece di dare stabilità occupazionale ai giovani, avrebbe solo prodotto una situazione deleteria di flessibilità esistenziale, gravata dalla condizione stabile di disoccupazione.

Tuttavia, crediamo che il livello più alto di contenuto filomarxista i ricercatori di Banca d’Italia lo raggiungano quando affermano: «La riforma ha avuto sia vincitori che perdenti. Le imprese sono le principali vincitrici in quanto la riforma è riuscita a ridurre il costo del lavoro, portando a maggiori profitti. Al contrario, i giovani lavoratori sono i principali perdenti a causa del fatto che i loro guadagni sono sostanzialmente diminuiti a seguito del cambiamento di politica» (sic!).

Alla Banca d’Italia, quindi, è bastato un ventennio appena per accorgersi di quanto era sotto gli occhi di tutti, cioè che le riforme del lavoro hanno aggravato le disuguaglianze economiche facendo precipitare i redditi dei lavoratori a tutto vantaggio delle imprese, leggiamo infatti che «l’effetto sui profitti delle imprese è stato positivo, anche per l’impatto negativo sui salari degli occupati, soprattutto dei giovani in entrata nel mercato del lavoro. È aumentata la disuguaglianza salariale tra i lavoratori all’interno di una stessa impresa».

Ovviamente, lo sappiamo, non arriveranno scuse da alcuna parte politica per il fallimento di riforme, di politiche del lavoro, che avrebbero dovuto garantire risultati del tutto differenti soprattutto per le fasce medio-basse della popolazione; non ci saranno, nemmeno, ripensamenti circa la trasversale e incauta esaltazione della flessibilità, sacra competenza richiesta a tuttə le lavoratrici e i lavoratori e del sistema neoliberista, penetrata sin dentro il tessuto caratteriale intimo di uomini e donne incantatə dal miraggio di dover continuamente aggiornare il proprio know-how per poter essere splendidamente competitivə e meritarsi ciò che gli spetta. E questo anche quando si palesa, come afferma oggi la Banca d’Italia, che, dietro il belletto della versatilità e dell’aggiornamento richiesti, la flessibilità non cela niente altro che le brutali dinamiche del mercato, la precarizzazione esasperante del lavoro e lo spettro della disoccupazione per i più giovani.

Magari dovremo attendere altri venti anni per capire che i diritti, soprattutto quelli del lavoro, non possono essere né flessibiliprecari. O magari, più verosimilmente, l’uomo flessibile forgiato nell’ideologia liberista, di cui Richard Sennett[3] tracciava l’amaro ritratto in un testo del 1999, nella continua necessità di reinventare sé stesso rispetto alle mutevoli richieste del mercato, si è irrimediabilmente frammentato, isolato dalla società civile e quei diritti, ormai, non può più reclamarli perché, semplicemente, non è più in grado di riconoscerli.

[1] T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2017.

[2] La traduzione è nostra.

[3] Cfr. R. Sennett, L’Uomo Flessibile – Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2001.

Di Michele Lucivero e Andrea Petracca.


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a cura di Michele Lucivero

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