
Ieri si è tenuta una nuova udienza del processo Miteni, nel corso della quale gli avvocati delle parti civili, rappresentanti dei cittadini delle province di Vicenza, Padova e Verona colpiti dalla contaminazione da Pfas, hanno presentato le richieste di risarcimento. L’ammontare complessivo delle richieste per i cittadini è stato quantificato in circa 15 milioni e mezzo di euro.
L’importo richiesto dalle parti civili nel loro insieme, considerando anche enti pubblici e aziende sanitarie, supera invece i 240 milioni di euro. Tra i legali intervenuti in aula, gli avvocati Matteo Ceruti e Cristina Guasti hanno avanzato la richiesta di 120 mila euro per ciascuno dei loro 129 assistiti, tutti residenti nelle aree più colpite dall’inquinamento ambientale causato dall’ex stabilimento chimico di Trissino.
Le parti civili includono, oltre ai cittadini, il ministero dell’Ambiente, che ha quantificato il danno in 56 milioni di euro, la Regione Veneto (16 milioni), le aziende sanitarie di Vicenza, Padova e Verona (circa 4), i gestori idrici Acque Venete, Viacqua e Acque del Chiampo (rispettivamente 8, 21 e 37 milioni), la Provincia di Vicenza (quasi 4 milioni) e i lavoratori dell’ex Miteni, che hanno chiesto 100 mila euro a testa, per un totale di 13 milioni.
Nel corso dell’udienza – come riporta l’edizione odierna de Il Corriere del Veneto – Vicenza e Bassano, l’avvocato Matteo Ceruti ha paragonato il disastro ambientale di Miteni a “un altro Vajont”, citando i risultati di uno studio epidemiologico dell’università di Padova. La ricerca ha evidenziato come, negli ultimi 40 anni, nell’area rossa si siano registrati 4 mila morti in eccesso, dato potenzialmente correlato alla presenza di Pfas nel sangue dei residenti. Secondo Ceruti, è emersa “una chiara intenzionalità di dolo da parte dei vertici della Miteni”, ma anche la responsabilità di enti pubblici, gestori idrici e organi di vigilanza per non aver svolto adeguati controlli.
Sempre secondo l’avvocato, “non sono emersi indizi di possibili accordi tra gli enti e i vertici dell’azienda volti a nascondere l’inquinamento”, ma è evidente che la Miteni abbia cercato in tutti i modi di evitare che la contaminazione venisse alla luce.
Presenti all’udienza anche le attiviste del comitato Mamme No Pfas, nato nel 2017 dopo i primi test che rivelarono livelli altissimi di sostanze perfluoroalchiliche nel sangue dei residenti. Michela Piccoli, una delle rappresentanti, ha dichiarato: “Quello che è emerso da ogni udienza è che gli imputati sapevano benissimo quello che stavano facendo: tutta la documentazione portata va in questo senso. Noi vogliamo una giustizia esemplare, oltre che la bonifica del sito Miteni e soprattutto che i Pfas vengano finalmente messi al bando”.
La vicenda giudiziaria si avvicina a una fase cruciale: la prossima settimana sarà il turno degli avvocati della difesa. Nel frattempo, resta l’attesa per la sentenza.