Proposte per il “dopo-coronavirus”: terapia intensiva su sanità, lavoro, ambiente. Intanto lo Stato inizi cancellando il pareggio di bilancio

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Coronavirus, terapia intensiva
Coronavirus, terapia intensiva

Il coronavirus potrebbe aprirci gli occhi e farci prendere coscienza almeno su qualcosa che in questi ultimi decenni abbiamo dimenticato (o, meglio, siamo stati ostili): la solidarietà e l’importanza del ruolo dello Stato nei settori strategici dei servizi e della produzione. Lo si dice in generale, considerando la stragrande maggioranza delle persone, delle forze politiche e sindacali. Perché è anche vero che qualche minoranza, con ostinazione, ha sempre mosso critiche a questo oblio che ha significato una resa dello Stato alla privatizzazione di qualsiasi cosa ad ogni costo. Privatizzazione che ha comportato a considerare che anche “il pubblico” dovesse sottostare ai criteri dettati dal profitto e alle “regole del mercato”.

Lo vediamo adesso nella sanità con la carenza di posti letto e personale per l’emergenza coronavirus (qui la situazione ora per ora sul Coronavirusqui tutte le nostre notiziesull’argomento, ndr). Lo notiamo con l’assenza, di fatto, delle strutture private che non sono in grado di aiutare la collettività.

Pensavamo, forse, di essere immuni alle emergenze? O che le epidemie o i “casi eccezionali” potessero avvenire solo in paesi lontani e del “terzo mondo”?

Di fatto ci siamo impoveriti collettivamente, sono saltate le garanzie e il diritto primario alla difesa della salute di ognuno.

Lo stesso è successo nel lavoro. Crollo dei diritti, precarizzazione, sfruttamento l’hanno fatta da padrone in una situazione sempre più compromessa. Basse retribuzioni, poca sicurezza, ritmi di lavoro sempre più pesanti hanno contribuito a un innalzamento delle malattie professionali, degli infortuni, dei morti. Una vera epidemia che ha portato a “contare” 17.000 decessi (per infortunio o in itinere) negli ultimi 12 anni. Un’epidemia, però, che passa sotto silenzio e che fa meno paura del virus che colpisce in maniera subdola. Ma se si pensa bene si colgono molte similitudini. Entrambe sono frutto di un sistema di vita sempre più votato al profitto e all’individualismo.

Sistema che ha esaltato l’inquinamento, i fenomeni climatici sempre più estremi, i disastri ambientali che ormai sono frequenti e ricorrenti. E devastanti anche perché la messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente è qualcosa che viene costantemente e volutamente ignorata.

Facce diverse della stessa medaglia. I profitti devono essere alti e di pochi. La prevenzione viene scartata a priori perché costa troppo. Lo Stato deve al massimo finanziare ma, poi, deve restare fuori dai “giochi”. Questo è il trionfo del liberismo sfrenato, anzi, di un capitalismo che ha come unico obiettivo il guadagno personale. I “soldi tanti, maledetti e subito”. Poca pianificazione, nessuna lungimiranza.

Oggi ci troviamo a combattere un virus invisibile e “cattivo” che fa collassare il sistema sanitario. Perché? Perché il sistema sanitario pubblico, inseguendo le regole del mercato (e in diversi casi, quelle delle tangenti) è stato svuotato, impoverito. Meno posti letto, meno personale medico e paramedico, esternalizzazioni e privatizzazioni … il risultato è sotto i nostri occhi.

Bisogna investire di più e meglio. Oggi in tanti lo dicono. Sono, spesso, gli stessi che prima esaltavano la sanità privata e che non vedevano la necessità di rafforzare quella pubblica. Gli stessi che si opponevano all’assunzione di personale medico.

I risultati sono questi: una fragilità preoccupante del sistema sanitario (ma anche di quello produttivo) evidenziata da qualche numero: il personale sanitario è calato, dal 2009 al 2017, di 46.500 unità; in 10 anni sono stati “cancellati” 70.000 posti letto; per quanto riguarda i reparti acuti nel 1980 i posti letto erano 922, oggi sono 262 ogni 100mila abitanti; in terapia intensiva i posti letto totali in tutto il territorio nazionale sono poco più di 5.000.

Ci si chiederà dove prendere le risorse necessarie a rimettere a posto le cose. Si tengano in considerazione le grandi ricchezze personali. Non è né un peccato né, tanto meno, un’eresia pensare che anche i grandi ricchi debbano fare la loro parte. Anzi che soprattutto loro debbano contribuire agli investimenti nei servizi collettivi. Sappiamo che nelle mani di pochi (una piccola minoranza di persone) si concentrano centinaia di miliardi di euro. Là si trovano le risorse con una patrimoniale progressiva che interessi le grandi ricchezze. Così come non deve essere più qualcosa di strano rimodulare le aliquote IRPEF in maniera di favorire le retribuzioni basse è chiedere di più a chi percepisce quelle più alte. Le tasse devono essere pagate progressivamente in funzione degli introiti. Forse è il caso di pensare che i redditi dei “più fortunati” possano essere tassati più del 43%. Si tratta di capire che la necessità di un futuro più sicuro e migliore per tutti non deve essere a carico della maggioranza meno abbiente ma, soprattutto, della minoranza più ricca.

Un’altra questione deve tornare all’ordine del giorno della Politica: il ruolo dello Stato. È ormai necessario che lo Stato (ri)diventi protagonista in settori dell’economia (sanità, istruzione, trasporti, banche, industrie strategiche …). Questo deve comportare anche un’onestà che si è persa nel tempo. Onestà di chi dirige la “cosa pubblica” che deve essere monitorata costantemente e la cui assenza deve essere colpita con la dovuta severità. Non si tratta di instaurare uno “stato di polizia” ma di ripristinare una normale convivenza collettiva nella quale il bene comune deve essere tutelato molto di più e meglio di quello privato, proprio perché appartiene a tutti.

Infine, tanto per iniziare, si dovrebbe cancellare il pareggio di bilancio inserito nell’articolo 81 della Costituzione ripristinandone lo spirito originale. Lo si faccia per riconsegnare alle nostre Istituzioni quella autorevolezza e quella sovranità (ben diversa dal sovranismo che oggi tanti politicanti, soprattutto di destra, sbandierano) che sono state cedute a poteri finanziari nazionali o esteri.

Giorgio Langella in collaborazione con Dennis Vincent Klapwijk

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.