La decisione del nuovo governo di rinominare alcuni ministeri, tra cui quello dell’Istruzione e del Merito, che un tempo era della Pubblica Istruzione, ha un profondo significato dal punto di vista socio-culturale. Tale iniziativa obbedisce, proprio come la nota diffusa dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio sull’appellativo da utilizzare per “Il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri On. Giorgia Meloni”, ad una logica di risemantizzazione del reale, di ridefinizione dei confini linguistici entro cui la realtà deve avere uno ed un solo significato possibile, annichilendo ogni altro tentativo di lettura e interpretazione.
Ora, non che prima noi non ci fossimo accorti della deriva che al suo interno, in maniera subdola e ufficiosa, così come ci ha abituato ultimamente la pavida sinistra liberista, stesse prendendo la scuola. Adesso, invece, è piuttosto evidente con la destra al governo, talmente credibile nelle sue politiche chiaramente liberiste al punto da vincere le elezioni, ciò che prima era solo implicito, cioè il tentativo di smantellare la scuola pubblica, quella dell’inclusione, degli ultimi, della lentezza dell’educare, per fare spazio alla scuola neoliberista o neoliberale centrata sul merito, sulla valorizzazione, sulla prestazione sempre efficiente ed efficace.
E, in effetti, basterebbe rileggere le parole del Rapporto finale del 13 luglio 2020, scritto dal Comitato di esperti presieduto da Patrizio Bianchi, per comprendere la continuità neoliberista su cui convergono in relazione alla “scuola del merito” tanto lo schieramento dell’attuale sinistra, capitanata dallo stesso Pietro Ichino, il quale ci spiega sulle pagine di Repubblica in che modo anche la sinistra deve credere al merito per valorizzare i figli delle famiglie meno abbienti, quanto quello della destra che convince e vince. Del resto, già nell’ambito delle misure atte a garantire la ripresa dal Covid-19, gli esperti nominati dal ministro Lucia Azzolina ritenevano necessario «riassegnare centralità allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno, trasformare ogni persona nel primo ingegnere di sé stessa (a partire dagli insegnanti)»[1].
La logica sottesa a questa nuova sbandierata concezione della scuola del merito, e alla tanto desiderata società meritocratica in generale, obbedisce ad un principio di prestazione legato alla continua e martellante necessità del soggetto di ottimizzare il proprio fare, un assunto che non era sfuggito a Michel Foucault sul finire degli anni ’70. Il filosofo francese nel suo Nascita della biopolitica ravvisava un ripiegamento del soggetto su sé stesso, un inizio di cambiamento della gestione del potere, il quale, abbandonando le tecniche di dominio coercitivo da parte degli apparati repressivi di Stato, elaborava apparati molto più subdoli di controllo delle coscienze attraverso le tecnologie del sé, quelle che costringono il soggetto a diventare, con una incredibile eco rispetto al dettato del Comitato presieduto da Bianchi, «imprenditore di sé stesso»[2].
Foucault, tuttavia, muore nel 1984 e non può immaginare l’evoluzione del mondo dopo il 1989, tra caduta del muro di Berlino, crollo dell’Unione Sovietica e nascita del World Wide Web, eventi, questi ultimi, entrambi avvenuti nel 1991, da considerarsi a tutti gli effetti come spartiacque decisivi per il cambiamento della società e dell’economia globale al limitare del secolo scorso.
Dopo Foucault è il filosofo sudcoreano, naturalizzato tedesco, Byung-Chul Han in Psicopolitica a tracciare quelli che sono i passaggi cruciali che trasformano la società moderna del biopotere, caratterizzata dal dominio sui corpi attraverso la repressione, il controllo istituzionale, la coercizione, le istituzioni totali, nella società postmoderna neoliberale (o neoliberista), caratterizzata dalla prestazione, dall’ottimizzazione, dal merito, dall’eccessiva libertà che il soggetto, divenuto progetto, fatica a gestire.
È in questo quadro socio-culturale che si deve leggere il cambiamento in atto nella scuola pubblica, quella che deve puntare sul merito, come dice Ichino, a partire dai e dalle docenti per terminare poi sugli alunni e sulle alunne.
Il merito diventa così la parola chiave per comprendere la transizione antropologica in atto nella nostra società, una trasformazione che valorizza l’homo faber, la prestazione, le opere, quasi come fosse un rigurgito calvinista, contro il quale anche lo stesso Papa Francesco non manca di tuonare. Il soggetto (da sub-iectus, posto sotto), già connotato da un rapporto antropologico di assoggettamento, lascia il posto al progetto (da pro-iectus, gettato avanti), alla prestazione da talent show, di cui ha assunto la piena e angosciante responsabilità. Se l’individuo-progetto fa bene, allora egli viene valorizzato, premiato, può avanzare, mentre se fa male, allora viene sanzionato, riprovato, castigato, subisce una diminutio, perché non conta la sua esistenza nuda, ma il suo mero fare, che è sempre fungibile, sostituibile da ciò che è più efficiente.
Ed è in questo continuo clima di pressione che la nostra società manda in tilt il cervello di milioni di persone, così come manda in tilt il cervello di milioni di studentesse e di studenti, generando quella che è l’attuale prospettiva della Psicoistruzione, vale a dire un regime scolastico ansiogeno, iperstressante, laddove la controparte alla valorizzazione del merito è la colpevolizzazione del demerito. Tutto ciò si inserisce perfettamente nel solco dell’attuale concezione dominante nella società neoliberista, per la quale la stessa povertà, la cui responsabilità non è da imputare che a sé stessi, subisce un pesante processo di colpevolizzazione.
Ecco che nel regime della Psicoistruzione, quello che necessita nella scuola – ce ne accorgiamo quotidianamente – della figura dellə psicologə, si punta ad educare i ragazzi e le ragazze alla Resilienza, ma non ci si accorge che la Resilienza è il problema, non la soluzione. È proprio nel significato profondo del concetto di Resilienza, che rimanda alla capacità soggettiva di superare da soli eventi traumatici, che si annida la trasformazione antropologica in atto. La Resilienza pone un eccessivo peso sul progetto, generando ansia da prestazione, stress, burnout, depressione, ripiegamento del soggetto su sé stesso e, al tempo stesso, annulla il potenziale trasformativo che il soggetto può realizzare a partire dalla realtà circostante, che, invece, viene lasciata intatta, giustificata per quello che è. Ed è proprio in questa subliminale risemantizzazione del reale, a partire dalla Resilienza, che abbiamo da tempo smarrito il senso specifico di ciò che un tempo noi chiamavamo Resistenza: «In ciò consiste la speciale intelligenza del regime neoliberale: non lascia emergere alcuna resistenza al sistema»[3].
[1] Scuola ed Emergenza Covid-19, Rapporto finale 13 luglio 2020, documento stilato dal Comitato di esperti istituito con D.M. 21 aprile 2020, n. 203.
[2] M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, p. 186.
[3] Byung-Chul Han, Psicopolitica, Nottetempo, Milano 2014, p. 15.
Di Michele Lucivero e Andrea Petracca.
Qui troverai tutti i contributi a Agorà, la Filosofia in Piazza
a cura di Michele Lucivero
Qui la pagina Facebook Agorà. Filosofia in piazza