La telefonata del dott. Nino Di Matteo componente del Consiglio Superiore della Magistratura nel corso della trasmissione Piazza Pulita ha sollevato varie questioni. Il dott. Di Matteo ha invero dichiarato che il ministro Alfonso Bonafede due anni prima gli aveva proposto di assumere la direzione del D.A.P. (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria).
Il Di Matteo si sarebbe riservato di dare una risposta, ma una volta che aveva dichiarato la propria disponibilità si era sentito dire dal Ministro che l’incarico sarebbe stato dato ad altri.
Il Di Matteo praticamente insinua che il mutamento di Bonafede sarebbe stato il frutto di pressioni provenienti dal mondo mafioso.
A Di Matteo è stato rimproverato dai suoi stessi colleghi di essere venuto meno ai doveri di riservatezza propri di un magistrato. A difesa di Bonafede si è sostenuta la insindacabilità delle scelte del ministro. In realtà è forse questa una delle poche volte che l’attività di Bonafede va difesa.
La “querelle” forse sarebbe degna di essere dimenticata se non portasse alla memoria una questione più complessa. In concreto un ministro offre ad un magistrato un prestigioso e ben remunerato incarico amministrativo.
Non è una novità.
I Ministeri e non solo quello della Giustizia hanno numerosi c.d. ministeriali, cioè, Giudici chiamati a svolgere funzioni amministrative. La faccenda non è priva di problematiche. In pratica il gradimento di un politico è occasione per un magistrato di assumere un importante incarico nell’amministrazione.
Orbene, come si rapporta il fatto con il principio della divisione dei poteri giudiziario e legislativo?
La divisione dei poteri non esclude la collaborazione tra gli stessi, ma impedisce la subordinazione dell’uno all’altro.
In particolare, il potere giudiziario deve essere indipendente dal potere politico, anzi la funzione dello stesso è quella di garantire che il potere politico non travalichi i limiti che tramite la legislazione lo stesso si è dato.
La soggezione alla legge vale tanto per il potere giudiziario che per quello politico.
A nostro avviso la possibilità di condizionamento sussiste allorquando il potere amministrativo sia in grado di determinare cariche o stipendi di un magistrato.
L’ingraziarsi il Ministero può costituire una tentazione e condurre ad azioni non conformi alla legge, ma conformi alle aspettative della politica.
Si può d’altro canto creare una reazione inversa. È noto come in realtà l’amministrazione sia condizionata dalla presenza dell’alta burocrazia. I ministri passano ma i dirigenti permangono. Divenuti dirigenti amministrativi i giudici burocrati possono a loro volta condizionare la politica secondo le aspettative della magistratura, non necessariamente coincidenti con le scelte che la politica vorrebbe adottare. In definitiva si crea un circolo non virtuoso tra i poteri dello Stato.
Ma vi è di più. E’ noto come poi diversi magistrati si presentano alle elezioni e vengono eletti parlamentari. Essere candidato non è semplice, occorre pur sempre che un partito si faccia portatore delle candidature. Quanto influisce sulla attività del magistrato ottenere il sostegno di un partito?
Difficile dare una risposta precisa ma la possibilità di un condizionamento è di tutta evidenza. D’altra parte una volta eletto il Magistrato Parlamentare potrebbe pensare più agli interessi corporativi della magistratura che non a quelli di interesse generale.
Si parla da parte di taluno di potere dei magistrati che occupano allo stesso tempo la sede propria e quella degli altri poteri dello Stato.
A nostro avviso, si tratta piuttosto di commistione tra i poteri potenzialmente pericolosa per l’andamento di tutti gli stessi. Un caso allarmante ricordiamo è quello di Lotti che, imputato, viene a discutere poi sulle scelte della magistratura in corso al CSM confrontandosi con altri magistrati.
Da quanto esposto emerge , situazione che dovrebbe essere superata per il rispetto dei valori costituzionali.