Razze e razzismo: La voce del Sileno anno 3

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Tempo fa a Vicenza è stata fatta un’accusa ad un negoziante di origini marocchine, colpevole di “razzismo“; senza tanti problemi aveva affisso un cartello nel quale vietava l’ingresso al negozio stesso di persone di etnia rom. In fretta e furia, come spesso accade quando si vuole cavalcare la notizia si era acceso il dibattito, che ancora perdura ed investe non solo la città berica ma tutta l’Italia e l’Europa, e ha ridestato i mai sopiti, per fortuna, timori di azioni razziste, che si manifestano particolarmente in Francia, in Germania, in Gran Bretagna e ultimamente anche il territorio della Repubblica Italiana, ma non ne è immune nessun paese.  
Anche il recente dibattito, spesso frettoloso e non sempre ben inquadrato e obiettivo dal punto di vista storico sui Provvedimenti per la difesa della razza emanati dal Regno d’Italia e dalla Repubblica Sociale Italiana dal 1938 al 1945 e che dovrebbero dirsi propriamente “leggi razziste”, come suggerisce il professor Fabio Minazzi dell’Università dell’Insubria (Varese). Sembra quasi che si voglia scaricare la colpa di razzismo da un lato all’epoca passata e dall’altro utilizzarlo più a fini politicanti immediati, che non a seria costruzione di una società migliore. E’ prova di ciò proprio il fatto che più che su una serie indagine scientifica ci si basi quasi esclusivamente sula negatività dei provvedimenti compiuti da una parte politica, dimenticando volutamente quando compiuto magari dalla propria sia in termine di giudizio negativo sugli ebrei (cfr. K. Marx, la questione ebraica) sia la loro persecuzione in URSS a partire dal 1930 e il complice silenzio dei maggiori esponenti del socialismo e del comunismo internazionali sulle leggi italiane (cfr. “Chi tacque e chi si oppose alle leggi razziali del 1938″, “VicenzaPiu.com”, 10 11/2018)
Ma quando nasce il concetto di “razza” e quando quello di razzismo. I due termini non vanno confusi. Il primo definisce la diversità degli aspetti del genere umano. Infatti il genere umano è unico, ma si differenzia in tipi umani, caratterizzati da differenze apparenti non sostanziali. Sono cessati i tempi in cui Johann Friedrich Blumenbach scriveva il “De generi humani varietate nativa” (Dissertazione, Gottingae, 1775) e considerato la base per lo sviluppo del razzismo scientifico. Era, infatti in quegli anni in corso un importante dibattito concludendo un dibattito cui aveva partecipato anche il filosofo Immanuel Kant fin dal 1775 con il saggio “Sulle diverse razze umane” e nel 1785 con “Determinazione del concetto di razza umana”.
Blumenbach si basava per i suoi studi “craniometrici” (ovvero basati sul cranio umano) per dividere l’umanità in cinque “razze”: Caucasica o “razza bianca” (la razza “originaria” da cui sarebbero derivate le altre per effetto di pressioni ambientali e abitudini alimentari); Americana o “razza rossa”; Malese o “razza olivastra”; Mongola o “razza gialla”; Africana o “razza negra”. Da questi studi una serie lunghissima che ha avuto scienziati, filosofi, politici come sostenitori e ben sappiamo quale sia stato il risultato.
Oggi il termine “razza” è riferito quasi solamente all’ambito zoologico ed in particolare a quello zootecnico, dove si distinguono popolazioni di animali domestici selezionati sulla base di esigenze diverse, come ad esempio la produzione della carne o la produzione di uova o di caratteristiche di attività, cani da caccia, da penna, ecc.
Gli studi condotti sulla specie umano hanno dimostrato che la variazione fisica interna alla specie umana, ossia il DNA è quasi irrilevante, come se tutti gli uomini derivassero da un piccolo numero di esseri umani. La spiegazione di questo è riferita alla catastrofe di Toba un’isola in Indonesia, avvenuta circa 75.000 anni fa. Un enorme vulcano sarebbe esploso, determinando un’ulteriore diminuzione della temperatura del globo terrestre che già attraversava un’era glaciale. Lo studioso Stanley H. Ambrose dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign, affermò nel 1998 che ciò determinò la riduzione drastica della popolazione umana a poche migliaia, dalle quali derivano gli attuali uomini viventi e che tra loro quindi manifestano poca variabilità genica.
Ciò ricorda proprio il diluvio universale, di biblica memoria. Dai figli di Noè Sem Cam Jafet derivarono tutti gli uomini, dopo che gli altri erano morti a causa del diluvio. Una stessa specie, o famiglia che popolò tutti le tre parti del mondo conosciuto e che afferma la precisa fratellanza di tutto il genere umano. È questa la ragione che porta a non valutare le differenze che appaiono come sostanziali e soprattutto come una sorta di scala gerarchica tra i diversi tipi umani, che è poi l’anticamera del razzismo.
Per procedere storicamente. Il mondo antico non possedeva un concetto di razza riferito all’uomo, le differenze erano relative ad usi e costumi, a modi di vivere quindi e ai contenuti precisi di ogni società umana. Così i greci consideravano i civilissimi Persiani come “barbari”, ma il termine, riferito peraltro anche ad altre popolazione, indicava che essi non sapevano pronunciare il greco, erano “balbettanti”. Anche nella cultura romana il termine “barbaro” indica il non romano, e solo quando la cittadinanza romana fu estesa a tutti coloro che abitavano l’Impero, il barbaro fu nuovamente lo straniero, ossia colui che erra di popolazione esterna allo Stato romano. Nel cristianesimo il barbaro era l’Ebreo, dice Taziano il Siro, allievo di san Giustino e capo anche di una setta eretica, perché la sua cultura era superiore a quella ebraica. Ma il termine si è consolidato allorché si riferì alle popolazioni che dall’esterno dell’Impero tentarono, riuscendovi spesso, a penetrare nello stato romano, abbattendolo e diventando, come i Longobardi, o i Vandali nuovi abitanti e amalgamandosi lentamente con le popolazioni latine o ispaniche, ma tutte di cittadinanza romana.
Certamente il cristianesimo che non riconosceva come fondamentali le differenze tra gli uomini, dato che tutti erano figli di Dio e rafforzando così la descrizione biblica del post diluvio. Il tanto vituperato Medioevo, troppo cristiano secondo alcuni laicisti, non discriminava tra le razze, semmai considerava le differenze di costume e talora se ne stupiva addirittura, come fecero Giovanni dal Pian del Carpine e Marco Polo. L’umanesimo, interessato alla centralità dell’uomo nell’universo, faceva dialogare gli uomini di diverse religioni tra loro, come attesta il bellissimo dialogo de pace fidei di Niccolò Cusano, riconoscendo che una fides in varietate rituum, quindi una sostanziale unità degli uomini anche di professione religiosa diversa, senza per questo proporre sincretismi oggi tanto di moda anche tra qualche sacerdote vicentino.
La stessa avversione al mondo ebraico non è nel Medioevo e fino a quasi tutto l’Ottocento, un’avversione “razziale” nel senso attuale del termine, ma una differenza in termini religiosi, come ben attestano gli scritti contro gli Ebrei di Lutero, condita soprattutto come dirà anche K. Marx ne “La questione ebraica “dal problema economico, ossia dall’usura e dalla sete di denaro come ben descrive W Shakespeare ne “Il mercante di Venezia”, seguito in questo anche dal pensatore illuminista Voltaire.
L’epoca che segna la nascita della problematica intorno alla diversità degli uomini è il Settecento, l’epoca dei lumi, particolarmente quello tedesco e della scuola di Gottinga, che volle rispondere con ragione alla questione delle differenze tra gli uomini. È vero che gli uomini appartengono allo stesso genere, affermavano quasi tutti gli illuministi, ma perché erano “colorati” in modo diverso. Il tutto dipendeva dal clima e da altri fattori fisico-ambientali. Per Ch. Meiners nel suo “Grundriss der Geschichte der Menschheit” 1785 elementi di diversificazione erano anche il talento, il carattere oltre al colore della pelle. In realtà egli sosteneva che gli uomini derivavano da un unico genere diviso in due ceppi quello tartarico-caucasico e quello mongolico. Il tartarico-caucasico si distingueva in due razze, quella celtica e quella slava; quella celtica nettamente superiore. Non fu immune nemmeno Kant al dibattito, che individuava quattro razze, forse non aveva ancora ben individuato la “razza”, ossia la quinta australiana. Ben diverso fu invece l’atteggiamento inglese e francese, che sottolineò la differenza tra gli uomini, ora parlando di un mitico buon selvaggio, che era la bontà naturale dell’uomo corrotta dalla civiltà, cfr. Rousseau, oppure la superiorità civile del gentleman cui si abituò anche Venerdì il salvato da Robinson Crusoe. In quest’ultimo caso si affermò l’eurocentrismo culturale e civile, con il compito, un po’ coloniale? Di civilizzare tutto il mondo. Gli uomini uguali? Sì, purché finissero nella civiltà europea e massimamente in quella inglese.
Sarà il positivismo e l’evoluzionismo a precisare meglio la teoria delle razze. L’indagine scientifica, basata sulla teoria d climatica e ambientalista anche di J.B. Lamark finì con il cercare una dimostrazione, rifiutando poi la fissità delle specie con l’evoluzionismo di C. Darwin l’elaborazione divenne più complessa e alle differenze storiche tra i tipi del genere umano, e a quelle climatiche iniziò a sostituirsi il concetto di razze fisiologiche. La differenza non era solo superficiale, era interna persino negli organi e particolarmente nella dimensione cerebrale. L’aspetto esteriore, la fisiognomica, avvalorava la differenza interna. Gli usi e i costumi non derivavano dal solo ambiente, ma erano connaturati alla diversità degli uomini tra loro. Ciò era dovuto, in particolare per le razze germaniche al fatto che trasformarono il genio dell’Occidente. Il positivismo con la sua peculiare attenzione alla scienza finì con il considerare le razze più dal punto di vista fisiologico che non storico-ambientale, determinando a cavallo tra Ottocento e Novecento una serie di studi che stabilirono artificiosamente le differenze tra i tipi di genere umano. Le razze non come differenze, ma le razze come diversità inconciliabili tra loro.
A. De Gobineau aggancia la differenza delle razze al problema della decadenza della società moderna, in particolare quella europea e segnatamente quella francese, dove l’Affaire Dreyfuss accentuò lo spirito di avversione agli Ebrei. Non dissimile fu l’atteggiamento della Russia la cui polizia organizzò la pubblicazione dei Protocolli dei savi di Sion che indicavano negli Ebrei coloro che volevano impossessarsi del mondo. Non ne fu immune la Germania guglielmina con W. Marr con il “Der Sieg des Judenthums ueber das Germanthum” e molti altri. Tutto ciò gettò le basi per quel testo che ancora è alla base del razzismo, ossia il “Mein Kampf “di A. Hitler. In questo volume non solo il compendio del razzismo, ma anche dell’eugenetica, della segregazione delle persone con disabilità, con diversità ecc. Nello scritto le ragioni dei Lager e dello sterminio di 12 milioni di persone. A questo si accodò anche il fascismo italiano, che quando cadde nelle mani dirette del nazionalsocialismo ebbe precise responsabilità nei confronti della questione razziale e della soluzione finale.
Intanto era nato un altro modello di “razzismo” quello politico, favorito dall’ideologia che non accettava null’altro che il proprio credo politico. Il totalitarismo non nazionalsocialista costruì se stesso negando la possibilità di altri pensieri. I gulag ne sono l’immagine evidente e il pope, filosofo e matematico Pavel Florenskij una delle prime dei milioni e milioni di vittime.
Il razzismo sia biologico che ideologico costruì un bagno di sangue. A nulla valsero le parole di coloro che ne denunciarono la negatività, tra cui ricordiamo papa Pio XI che le pronunciò nel 1938 pochi giorni dopo la pubblicazione del Manifesto della razza. Affermò il pontefice il 28 luglio, nella residenza pontificia di Castel Gandolfo, rivolgendosi agli alunni del Collegio romano di Propaganda Fide: “Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali… La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana. Questo è il pensiero della Chiesa». Certo egli usava il termine “razza” come d’uso all’epoca, ma con un’attenzione che nessuno ebbe al tempo e talora nemmeno oggi.
Dopo il 1945 ed in particolare di fronte alla shoah, il razzismo muore? Ufficialmente sì, ma non sempre e comunque. Gli stessi studi antropologici, tendono a negare la teoria delle razze, ma non hanno sempre buon seguito. Se da un lato il problema del razzismo biologico è forse superato, almeno scientificamente lo dovrebbe, non altrettanto quello ideologico. La difficoltà consiste nel non accettare che vi siano differenze e nel contempo un’unità del genere umano. Questo messaggio che dalla Bibbia è stato accolto, non sempre è stato ed è linea guida. Lo straniero è l’incontro con la diversità di un’eguaglianza e non sembri contraddittorio ciò, ma ammettere questo significa costruire un’umanità al di là delle proprie ideologie. Questa è la sfida oggi dell’uomo nel mondo. Non si tratta né di pasticciare facendo un caotico miscuglio di tutto, ma considerare che le identità culturali sono una cosa e anche un bene, ma la relazione tra queste non deve separare in ghetti. Infatti, lo ricorda Kant, un uomo non può non incontrare altri uomini: la terra è rotonda e nella dimensione del dialogo si costruisce una società umana. Quella società che unica iniziò il percorso dal quale deriviamo sia che sia stato il post diluvio sia la catastrofe di Toba.

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