“Riformare la giustizia senza tante storture. Basta tentennamenti”: l’intervista de Il Fatto Quotidiano a Gustavo Zagrebelsky

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Gustavo Zagrebelsky
Gustavo Zagrebelsky

Di La Giustizia come professione è il titolo dell’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky. Avrebbe potuto essere anche Confessioni di un giurista: il saggio è una guida ragionata attorno al diritto come traduzione mondana di una virtù morale, la giustizia. Ma è anche una lunga lettera d’amore al mestiere di giurista, non priva d’amarezze come accade sempre nei rapporti duraturi.

O forse una lettera d’addio al diritto?

Non ho una risposta sicura. Dopo più di mezzo secolo nel mondo del diritto sento l’esigenza di respirare anche altre atmosfere. Soprattutto visto come viene concepito oggi il mestiere del diritto: una girandola di commi, contro-commi e combinati disposti.

Una severa critica è riservata al diritto come tecnica, cioè all’uso strumentale che professionisti, più o meno consenzienti, fanno del diritto. Il diritto non è più mite?

In buona parte ha cessato di essere cultura, ed è per l’appunto diventato tecnica. Quando si ha a che fare solo con la tecnica (i giuristi di oggi amano parlare di ragionamenti “tecnico-giuridici”) il diritto diventa ciò di cui scrive il Manzoni quando l’avvocato dice al povero Renzo: “Figliuolo a te spetta di dire le cose come stanno, a me di ingarbugliarle”. La riprova sta nel fatto che il diritto in tutti i suoi settori è diventato non un fine, ma un mezzo per sostenere quasi tutto quel che si vuole o che interessa.

Perché rivolgersi all’autorità giudiziaria “è già un fallimento”?

Perché significa l’incapacità di risolvere le controversie di cui la vita è ricca in un rapporto a tu per tu. Nel Vangelo di Matteo un versetto dice: “Prima di andare dal giudice mettiti d’accordo con il tuo avversario”. In altri termini: il ricorso al giudice, in una società sana, è da considerare l’extrema ratio. Mentre nella nostra società, che da questo punto di vista sana non è, in presenza di qualsiasi contrasto si va per avvocati. Questa è una disumanizzazione.

Lei scrive: “La prescrizione è una norma di civiltà. Ma si può ammettere che sia usata per vanificare il processo? Difendersi non vuol dire vanificare”. Perché è un nodo politico così centrale?

Due considerazioni. La prescrizione dei reati che sono lontani nel tempo è una esigenza di civiltà. Diversa è la prescrizione che si determina non perché il reato è sepolto nel tempo, ma perché la macchina della giustizia è inefficiente. Ora l’inefficienza si combatte con l’efficienza. La prescrizione che deriva dall’inefficienza, in linea di principio, non dovrebbe essere assunta come ragione per non perseguire reati che non sono sepolti nell’oblio. Una cosa è la prescrizione sostanziale, necessaria; un’altra cosa è la prescrizione processuale, dovuta all’inefficienza del processo.

E la seconda considerazione?

La prescrizione sostanziale è un’esigenza di giustizia, la prescrizione processuale è una sconfitta della giustizia. Non solo: è diventata uno strumento di abuso del diritto quando viene utilizzata – con tutte le tecniche, i cavilli e gli artifici dalle difese degli imputati – per impedire che si faccia giustizia. Impedire alla giustizia di fare il suo corso non è una cosa buona. Gli avvocati che abusano della prescrizione saranno magari dei bravi legulei nell’interesse dei clienti, ma non sono dei buoni cittadini. Lo stesso dicasi per il legislatore.

Con gli avvocati non è, manzonianamente, tenero. In un passaggio parla degli studi legali come aziende: la giustizia è un brand?

È inevitabile, in un mondo del diritto così complesso, che la figura dell’avvocato solitario che si occupa di tutto sia oggi recessiva e che sia stata sostituita dai grandi studi associati che operano spesso su tante piazze, nazionali e internazionali, e che offrono servizi omnicomprensivi, “chiavi in mano”. Tra questi studi si sviluppano tecniche concorrenziali per affermarsi sul mercato. La vecchia e nobile idea dell’avvocato libero professionista è oggi manifestamente in crisi.

Della categoria dei giudici, lei elabora una tipizzazione: il politico, l’empatico, il redentore, il vendicatore. Perché? 

Guardi, i giudici hanno a che fare con la giustizia. E la giustizia è una dimensione dell’animo umano che si nutre di tanta materia morale. Per quanto si voglia che il diritto sia indipendente da valutazioni morali, la tentazione è sempre sull’uscio. Ma naturalmente si tratta di tentazioni e il buon giudice sa quando deve resistere. Cosa non sempre facile. Questo è uno dei nodi che rendono tanto difficile la professione del giudice.

Riserva parole molto lusinghiere all’aggettivo politico, nel senso del perseguimento dell’interesse della polis, anche quando lo accosta all’amministrazione della giustizia. Eppure le tensioni tra politica e giustizia non accennano a diminuire. 

La politica e il diritto appartengo a due àmbiti della vita collettiva, distinti e inevitabilmente in tensione. La politica è il luogo del potere, il diritto è il luogo della giustizia. Contrariamente all’apparenza non è buona cosa se vanno d’amore e d’accordo, poiché ciò significherebbe o che la giustizia si è asservita alla politica oppure che la giustizia prevarica la politica. Ciò è particolarmente deplorevole in democrazia.

Stiamo parlando, ma quando non accade?, di riforma della giustizia: vaste programme. È un’idea velleitaria?

Non ci si può aspettare miracoli e si deve temere di fare peggio di quanto già non sia. Per esempio complicando ulteriormente le procedure che andrebbero semmai semplificate; oppure aumentando il numero dei componenti del Csm, fino a farne una sorta di grande Consiglio Comunale.

Ecco, il Csm: ha un’idea di come si possa ridurre al minimo l’influenza delle correnti?

Sì: nove componenti, sei togati e tre laici.

Torniamo un momento alla riforma: si aspetta una svolta significativa?

C’è una massima di Montesquieu che dice che le cattive abitudini non si combattono con le leggi, ma con le buone abitudini. A un concetto simile si richiama la ministra della Giustizia quando dice che la vera riforma deve provenire innanzitutto dalla parte sana – che è mio parere è quella di gran lunga più numerosa – del mondo giudiziario.

All’inizio mi ha detto che non si occupa più di diritto: come passa le sue giornate?

Mi occupo di cose che colpevolmente finora ho trascurato. E il tempo è scarso. A settembre uscirà un mio commento al Qohelet, che tratta di vita e morte. Attualmente sto lavorando a una riflessione sulla “lezione”: pensi che ho fatto lezioni per cinquant’anni e solo ora m’interrogo su cosa ha da essere una lezione…