Anche a Vicenza, il 7 dicembre, migliaia di “sardine” si sono ritrovate in piazza Matteotti. Non serve sindacare, né “giocare”, sui numeri riportati dai giornali (sul nostro 4mila ndr). La partecipazione è stata importante. Ed è importante che si esca ancora di casa a manifestare per qualcosa. Parole d’ordine comprensibili, direi “assolute”, come “basta odio”, evidentemente uniscono migliaia di coscienze anche in una città spesso intorpidita come Vicenza. Adesso, proclamano gli organizzatori, si va avanti con altre iniziative. Bene. A questo punto, però, su come andare avanti e per che cosa, qualche domanda sarebbe da porre (e da porsi).
Innanzitutto, quali sono le prospettive di questo movimento che si autoproclama antifascista, antipartiti, anti Salvini e fa capire di non essere politico? Il fatto di essere “buoni”, di non “odiare nessuno”, di accogliere tutti e tutto, può sembrare qualcosa di generico che non può (e forse non vuole) risolvere questioni importanti e decisive. Forse è così e, magari, il tempo ci dirà se sarà qualcosa di continuativo e non effimero. E, poi, cosa si intende fare, ad esempio, per le questioni del lavoro?
Si vogliono affrontare i temi della precarietà e della sicurezza nel lavoro, delle retribuzioni insufficienti, dei ritmi di lavoro insopportabili, dei licenziamenti (quel taglio degli “esuberi” come vengono definiti i lavoratori considerati non più persone ma costi) dovuti alla necessità padronale di fare profitti sempre maggiori? Cosa si pensa, ad esempio, degli 8000 dipendenti di Unicredit che si vuole mandare via quando al contempo verranno distribuiti ai soci 8 miliardi di utili? Cosa si pensa delle privatizzazioni? Entrando nel concreto, si è d’accordo o meno sulla nazionalizzazione di industrie strategiche come l’ex ILVA? Sono temi, questi, che non interessano il movimento delle sardine perché altri sono gli obiettivi (o, forse, perché non ci sono ancora obiettivi)?
Ma le questioni temi del lavoro non sono qualcosa che si può ignorare o lasciare ad altri. Né sono cose che si devono delegare ad ipotetici “addetti ai lavori” che, magari, non li affrontano neppure. Sono problemi che investono la vita di decine e decine di migliaia di persone e famiglie e che dovrebbero interessare l’intera cosietà.
Mobilitarsi è bello e trovarsi assieme a cantare “Bella ciao” è positivo. Chi riesce a mobilitare tante persone è certamente bravo e capace (anche perché è difficile trovare le risorse economiche per farlo). Non si vuole mettere in discussione niente rispetto a una partecipazione importante come quella del 7 dicembre, anzi. Ma è il “che fare” che, passata la soddisfazione del successo di partecipazione, bisogna affrontare e deve preoccupare. Per trasformare la società (e, anche, il modo di pensare e il “senso comune” oggi imperante) in qualcosa di più umano, bisogna avere un piano politico, progettare un modello di sviluppo diverso, profondamente diverso, rispetto all’attuale. Riunire tutti (come a un concerto o uno spettacolo) non basta. Riunire in una sorta di abbraccio comune sfruttati e sfruttatori, destra e sinistra, lavoratori e padroni assomiglia troppo a quel dichiarare di “essere tutti sulla stessa barca” (cosa irreale e affatto veritiera) o a quel “volersi tutti bene” che ha contribuito, magari dopo l’entusiasmo iniziale per altri movimenti, a generare nel nostro paese soprattutto assuefazione, rassegnazione, torpore e, in definitiva, indifferenza.
Pensare di poter risolvere le questioni che attanagliano il paese e il mondo senza che ci sia conflitto è, a mio avviso, ingenuo e irrealizzabile. Quando, poi l’unico conflitto che viene prospettato è sostanzialmente contro i partiti e le organizzazioni politiche, la cosa diventa, almeno per come la penso, imbarazzante e inaccettabile. Sembra che la colpa di tutto sia di tutti i partiti, della presenza di persone che si organizzano in essi e, magari, lottano orgogliosi delle proprie ideologie e dei propri simboli.
Senza fare distinzioni tutto viene accomunato in un indistinto grigiore senza considerare né evidenziare di come la responsabilità della situazione attuale risieda principalmente se non totalmente nei partiti che oggi siedono in Parlamento e che si sono trasformati in “aziende” (con evidenti fini di lucro) finanziate da privati e lobby attraverso le fondazioni collegate. Questa avversione verso la forma partito e non verso il contenuto di quelli che partiti non lo sono più essendo diventati meccanismi che servono a produrre soldi e accumulare potere, mi sembra profondamente sbagliata, pressapochista e, di fatto, qualunquista.
Ripetere slogan ascrivibili a quelli ripetuti dal “Fronte dell’Uomo Qualunque” nel dopoguerra o a quelli abituali della maggioranza silenziosa non porta a nulla se non a stabilizzare la situazione attuale. Lo si fa con meno odio, certo, con una dose di allegra ironia, ma senza prospettive di reale cambiamento. Sarò pessimista ma così, senza un progetto di cambiamento, senza una Politica adeguata, anzi con la continua dichiarazione di pretesa apoliticità, il torpore rispetto ai grandi problemi generati dal sistema capitalista continuerà a invadere le nostre vite.
A proposito dell’ex ILVA, dopo la grande assemblea dei lavoratori del 28 novembre, venerdì 29 a Taranto c’è stato una manifestazione dei lavoratori nell’ambito dello sciopero nazionale indetto da USB che ha visto la partecipazione del 60% degli operai dell’ex ILVA. Si sono potuti finalmente vedere uniti lavoratrici, lavoratori e cittadini tutti vittime dello sfruttamento umano e ambientale prodotto dall’acciaieria, mostruosa “macchina di morte”.
Le parole d’ordine dei manifestanti erano chiare “Cittadini e operai uniti per la chiusura e la riconversione”,”Basta guadagnare sulle nostre vite”. I lavoratori e i cittadini spiegavano con efficacia una cosa molto semplice: lavoro, salute e ambiente non possono essere in conflitto. È il capitale che è in contrapposizione con il lavoro, la salute, l’ambiente. Il 29 novembre a Taranto si chiedeva riconversione industriale, un modo di produrre che non sia inquinante, la dignità del lavoro, il diritto alla salute e di vivere in un ambiente non inquinato. In poche parole si esigeva quello che è diritto di ognuno: un futuro migliore. Ebbene, di questa iniziativa che ha visto la partecipazione di migliaia di persone quasi nessuno ha parlato o scritto, evidenziando, forse, come sia meglio tacere quando si mette in discussione qualcosa di preciso come il modello di sviluppo attuale.
Sul sito di USB nazionale, in relazione all’ex ILVA e alla manifestazione del 29 novembre, si può leggere questa frase che è, di fatto, una dichiarazione/appello: “È tempo di un’iniziativa per riportare in mani pubbliche la politica industriale del Paese, come chiesto dall’assemblea operaia tenuta ieri a Taranto dalle rappresentanze operaie delle maggiori fabbriche italiane. Perché coniugare lavoro e ambiente si può e si deve”. Questa è fare Politica. Quella vera che guarda al presente e al futuro.
Per tutti, partiti, associazione, movimenti (“sardine” comprese) è tempo di decidere da che parte stare.