Per gioco della sorte l’ironia beffarda di una burla dette vita alla grande storia dei fumetti, e c’entra il grande pittore Buffalmacco, quello del “Trionfo della Morte” nel Campo Santo di Pisa – si legge nel comunicato che pubblichiamo a firma di Gian Luigi Corinto, geografo culturale, consulente di Aduc (qui altre note dell’Associazione per i diritti degli utenti e consumatori su ViPiu.it, ndr). Grande pigro, grande pittore, grande ingegno, incline alla satira, alla burla dei cretini e dei creduloni.
La storia dimostra come spesso la satira può molto, anche oltre le intenzioni originarie; come dire che “Goofy”, che in Italia prende il nome di Pippo, possa derivare da uno scherzo di Buffalmacco.
Ma prima un po’ di storia delle parole. Satira è parola che deriva dal latino “satur”, che nell’espressione “lanx satura”, significa piatto pieno, scivolando presto nel significato di piatto ricco di troppi ingredienti. Un miscuglio, una mescolanza di sapori differenti e disparati, una cosa che riempie la pancia, un ripieno, una farcitura, una farcia, una “farsa”, insomma. La satira può essere pesante, la farsa uno scherzo leggero, ma le due restano parenti. Dalla tavola, come piatto grossolano, grasso e troppo ricco, la satira fu ammessa nella bella società dei poeti. Quintiliano, poeta appunto, definiva ‘satira’ il genere strettamente intrappolato in versi esametri, pretendendo che fosse invenzione letteraria esclusivamente romana (satura tota nostra est). Si potrebbe convenientemente pensare che Quintiliano esagerasse in suprematismo romanesco e ritenere che la prima forma di satira fosse invece la commedia del greco Aristofane. Ammettendo che l’esclusiva pretesa da Quintiliano si riferisse alla sola poesia in esametri e che, quindi, lui avesse una parte di ragione, la parola satira ha poi preso un significato molto più ampio e metaforico.
Non appena una parola entra nel dominio delle metafore, reclama subito di avere sensi e significati molto, molto più estesi. Più alti, più bassi, attenuati, rinforzati, condivisi, contestati, perfino incorrendo in complicazioni etimologiche. Ebbene “satura”, che originariamente non aveva declinazioni come verbo, avverbio o aggettivo, si appropria etimologicamente di un’altra parola, stavolta di origine greca, “satyr”, e dei suoi derivati. Il piatto farcito e ricco diventa “satirico”, così come oggi intendiamo la satira: lo sberleffo feroce di fatti e persone, meglio se fatti e persone appartengono al mondo della politica e alla classe dei potenti. Il satiro infoiato nel bosco, con gambe di caprone, membra allertate all’eros, avrebbe poco a che fare con la satira, insomma; occorrerebbe infatti pensarlo molto seriamente impegnato a insidiare ninfette che se ne vanno nude al bagno, e niente affatto intento a praticare burle e deridere i tic dei potenti e degli inferiori. Ma siccome spesso i satiri sono ebbri e, correndo felici dentro la processione di Dioniso dio del vino, raramente rinunciano a prendere in giro i passanti, non ci meraviglia che i significati di satira e satirico si siano felicemente mescolati.
Sfiorando il sarcasmo, sempre da evitare, la satira punta spesso all’ironia, meglio se sottile, per diventare la migliore forma espressiva della società e del suo funzionamento. La satira come forma sottile di sociologia? In certa misura sì, dato che uno sguardo disincantato e penetrante (ironico) può dare la visione più profonda della psiche collettiva. In molti casi, anzi, la satira è il mezzo migliore per rivelare i valori, i gusti, la struttura del potere e della stratificazione in classi di una società. Il potere, soprattutto, è “disvelato” dalla satira che spesso riesce a modificare i comportamenti e a sovvertire le idee correnti. La satira è in danno delle idee costruite dal discorso culturale dominante; essa serve là dove le parole sagge non bastano e funzionano meglio miti e metafore taglienti, quelli che fanno riflettere e cambiare idea.
Quel gran pittore che fu Buonamico di Martino, soprannominato Buffalmacco per il carattere burlone, se lo deve essere proprio meritato un tal soprannome, con il quale è entrato nelle novelle del Boccaccio e nelle storie del Sacchetti. Buffalmacco prendeva in giro i creduloni e gli stupidi, ironizzando, satireggiando, burlando, nella vita vera e nelle finzioni letterarie che lo hanno rappresentato come carattere umano. Che il soprannome significasse proprio l’inclinazione dell’uomo a farsi beffe degli stupidi? Può essere. Il Macco (Maccus) è lo stupido della satira Atellana, il balordo sempre affamato e sempre assetato di vino, eterno innamorato e per questo sbeffeggiato. Ha il cervello ammaccato, pestato bene come i legumi che servono per fare la polenta di fave, che i Romani chiamavano appunto “maccus” e che ancora oggi è diffusa in Sicilia col nome di “macco”. Chi può essere, se non Buffalmacco, il naturale sbeffeggiatore dei cretini? e chi è Maccus, se non il Calandrino boccaccesco di cui Buffalmacco si fa beffe?
Però c’è una vendetta della fama: da una burla cattiva di Buffalmacco in danno del pittore pisano Bruno di Giovanni, ha preso vita il “fumetto”, la cui universalità sta nel termine americano “comics”. Eterogenesi ironica dei fini burleschi del beffardo pittore?
Dunque, richiesto di un consiglio su come rendere vive le figure rappresentate, Buffalmacco consigliò l’amico Bruno di ravvivare la scena dipingendo le parole del dialogo tra Sant’Orsola e Pisa mentre la santa salvava la città dalle acque. Forse, il racconto è ingigantito o addirittura inventato da Giorgio Vasari nelle sue “Vite”, tanto più che Bruno e Buonamico erano compagni della stessa brigata di burloni. Ma è certo che Bruno fosse inferiore a Buffalmacco nell’abilità pittorica e che lo stesso Vasari non esitasse a definire la raffigurazione delle parole in un quadro come cosa goffa, una sorta di “Goffismo” delle brutte maniere da contrapporre a quelle belle della “Manierismo”, dei pittori abili.
Non fa quindi alcuna meraviglia vedere oggi che uno dei personaggi più simpatici e imbranati di Walt Disney, padre universale del mondo dei “comics”, si chiami “Goofy”, in Italia detto Pippo. Fosse vivo, Buffalmacco lo avrebbe chiamato Bruno o Calandrino. Non c’è dubbio.
Gian Luigi Corinto, consulente Aduc, geografo culturale