Scarpette rosse, salari e conti correnti: la violenza legata al cromosoma Y?

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Eppure non ci hanno convinto. Se la violenza fosse una faccenda esclusivamente maschile, sarebbe una caratteristica legata al cromosoma Y, quindi ineluttabile; e per quanto l’opera civilizzatrice dell’educazione e della denuncia possano smorzare gli effetti antisociali e i numeri statistici, la prepotenza resterebbe irreparabilmente inscritta nel patrimonio maschile. Ma non è così. Malgrado le donne continuino ad accusarci, di modo che ogni maschio si senta colpevole all’annuncio di un nuovo “femminicidio” – come hanno chiamato la furia omicida maschile – purtroppo la violenza non è di genere, ma equamente distribuita tra i sessi.


Eppure la semplice evidenza che l’aggressività è perfettamente corrispondente e che l’uomo si distingue solo per la sua letalità fisica, non basta. Ogni fonte d’informazione ci ossessiona da anni con la conta di donne uccise, senza distinguere se la violenza sia espressamente diretta alla vittima, o se essa è stata parte accidentale di una più vasta intenzione stragista. L’accusa che viene mossa, cioè il femminicidio, è essenzialmente questa: la violenza mortale ai danni di una donna non è quella generica verso un essere umano, un semplice omicidio dunque, ma una violenza diretta contro il genere femminile: il proposito di sopprimere ciò che una donna rappresenta civilmente, socialmente, e sessualmente in quanto femminino.

Ma questa tesi è quantomeno bislacca, considerando la totalità dei numeri che riguardano le violenze maschili e femminili. Se su una popolazione di 60 mln di abitanti, si trovano un centinaio di casi sfortunati, di cui quasi la metà causati da soggetti di origine straniera, non si può parlare di soppressione di genere. Né lo si può fare se si considera la totalità degli omicidi, e i corrispondenti delitti consumati a loro volta da femmine, che obbligherebbero a pensare a un corrispondente “maschicidio”. Purtroppo in tutta questa storia gioca un ruolo dominante l’indulgenza, forse la cavalleria, con cui noi trattiamo da sempre le donne, e la paura di poter incorrere nel discredito da misoginia se tentassimo di opporci alle loro accuse e al pensiero dominante.

Invece le donne sono più amate proprio nella parte di mondo occupata dalla semenza giapetica, e molto più nei paesi mediterranei, se si vanno a considerare le statistiche che riguardano Italia e Grecia. Ma disgraziatamente non è l’amore ad essere in discussione, è piuttosto la convivenza e le ragioni dello scontro. Ciò che è in ballo è l’egemonia di genere, che è fatta di pretese nascoste e ragioni inconfessate. Sono in ballo i lavori meno faticosi, meglio retribuiti e la dominanza sociale. Le interviste alle manifestanti contro la violenza, che passano in rassegna la condizione femminile: violenze fisiche, psicologiche e sociali, tutte additano la causa in una supposta disparità economica e salariale. Perciò il problema è tutt’altro che la violenza della natura umana.

La convivenza sociale, civile e del lavoro, la coabitazione familiare, oggi testimoniano la crisi della nostra civiltà. L’enorme bacino elettorale femminile e la possibilità di acquisire un consumatore remissivo sono blanditi dal potere politico ed economico incuranti della bomba innescata nelle fondamenta della società. I modelli proposti dall’ordine capitalistico non ammettono più una famiglia tradizionale fondata sulla gratuità dei rapporti e delle economie, e propongono un mercato del lavoro basato sul contratto e sull’incontro della domanda e dell’offerta. Tuttavia il genere femminile sembra volersi svincolare dalle regole che non gli portano giovamento. Ha contribuito a scardinare assieme al Capitale la gratuità del sistema famiglia, ma non si assoggetta alle regole del mercato. Nel mondo del lavoro e della famiglia il sistema delle accuse rappresenta per le donne l’instrumentum regni, il vero cuneo di penetrazione sociale, il più potente mezzo di trasferimento della ricchezza da un genere all’altro.

Più dell’80% delle separazioni giudiziali è proposto dalla moglie, sollecita nel firmare il contratto matrimoniale, e più svelta nel rescinderlo. Dentro il matrimonio si scontrano le mitologie alimentate dall’ordine economico che causano la maggior parte delle separazioni. Gli stress da provocazione e i maltrattamenti che conseguono sono il cammino obbligato che porta alla rottura dei programmi economici e spirituali, di cui il maschio e la sua disperazione sono le vittime maggiori. Come non considerare l’iniquità del diritto di famiglia quale causa dell’asprezza delle separazioni non consensuali? Perdurare in un vincolo firmato da due parti e rescisso da una sola è il maggior equivoco dei nostri tempi.

I diritti dell’uomo e del cittadino improntati sulla parità speculare dei generi nella vita sociale e civile sembrano essere superati. La specificità della natura femminile e il suo sovvenzionamento economico è un orizzonte che non sembra avere fine se lasciato al capriccio e alla soggettività. Quanto vogliamo durare in questa guerra fratricida? Vogliamo passare i prossimi decenni ad elencare le cifre dei crimini compiuti dall’altro sesso? E’ forse il momento di pensare ad una cura della prole lontano dall’antiquato progetto famiglia. E’ di certo il momento di acquisire valore sociale ed economico solo attraverso meriti indiscussi. E’ il momento di rifare i patti e di mantenerli.