Ci eravamo detti che saremo usciti diversi da come eravamo entrati nella quarantena. Almeno ci abbiamo sperato. Quello che è successo in questi giorni dopo la liberazione di Silvia Romano, ci mostra che forse non è così. Non per tutti almeno.
Siamo ancora in emergenza. È chiaro. Ma è una emergenza, questa della Fase 2, dalle caratteristiche molto diverse da quella precedente, da quella per intenderci del #iorestoacasa. La prima fase aveva in qualche misura sospeso il tempo, la vita era rallentata, i pensieri stessi si erano ridotti. Ora se non tutto, tanto torna a circolare, a esprimersi. E così ri-emergono anche dal mare dei social i sentimenti che ci caratterizzano davvero, anche quelli che puzzano di odio lontano un miglio e trasformano il web in una fogna.
E così gli attacchi vigliacchi e violenti contro Silvia Romano, la volontaria liberata sabato scorso dopo 18 mesi di sequestro in Somalia, mostrano appunto che l’odio è una brutta bestia da combattere e che non c’è coronavirus che lo possa distruggere, se una persona non lo vuole.
E così, a qualche giorno dalla bellissima notizia del ritorno a casa di Silvia resta un retrogusto di amarezza. L’aereo che ha ricondotto la 24enne milanese tra le braccia della sua famiglia non ha quasi fatto neanche in tempo a toccare suolo che poco dopo sono partite le polemiche e gli insulti sulla sua conversione all’islam, sulla sua scelta di partire volontaria, sul probabile riscatto pagato.
L’umanità, intesa come vicinanza e simpatia naturale per ogni creatura e innanzitutto per ogni nostro simile, non è un tratto da dare per scontato, mai. La storia ce lo insegna. Eppure in queste settimane di quarantena abbiamo registrato tantissime storie di solidarietà, di attenzione all’altro, di accoglienza del più fragile. Segni di bene, di speranza che però non cancellano il male che può sempre impadronirsi dell’animo umano. Su questo non si deve mai smettere di vigilare.
Di fronte al dramma del rapimento di Silvia e alla gioia della sua liberazione, in questi giorni tutti dovremmo riscoprire la sobrietà, il valore del pudore inteso come ritegno, giusto riserbo che si esprime con un silenzio che si astiene da giudizi, in attesa di comprendere meglio. Cosa ne sappiamo, infatti, noi di 18 mesi di prigionia, di solitudine, di paura. Cosa ne sappiamo noi del mistero che si muove nell’animo umano nel proprio incontro con il divino? Tutto questo è terreno sacro che merita, anzi esige, rispetto.
E invece non è stato così. Non da parte di tutti. Ci spiace per Silvia, per i suoi familiari. Da parte nostra abbiamo avuto la conferma che come usciremo da questa emergenza dipende da ciascuno di noi, dai passi che ciascuno avrà il coraggio di compiere.