Il testo delle psicologhe Maria Cristina Strocchi (nostra insostituibile collaboratrice, ndd) e Mariangela Guerra, scritto con il supporto non trascurabile dell’avvocato Maria Lovito, solleva un problema spinoso per la nostra società, anzi, a ben vedere, più di un problema.
Se, infatti, le questioni della violenza di genere e delle relazioni tossiche emergono sin dal titolo Se lo conosci, lo eviti, con annesso sottotitolo che invita a considerare la lettura come un Manuale pratico di sopravvivenza per evitare di rimanere intrappolati in legami violenti o letali, in realtà sul piatto ci sono anche questioni improcrastinabili inerenti alla necessità di prendersi cura sia psicologicamente sia in termini educativi di chi si ostina a innescare la violenza fisica, quasi legittimato da un contesto culturale che non è sempre molto chiaro su alcuni punti.
Il testo di Strocchi, Guerra e Lovito invita a riflettere su quel confine molto sottile tra la violenza fisica, che è palese, documentabile e lascia traccia sui corpi, per cui è facilmente denunciabile, punibile e, quindi, condannabile, e la violenza psicologica, verbale, purtroppo non evidente. Spesso quest’ultimo tipo di violenza impalpabile si perde nei meandri delle testimonianze opposte e contraddittorie, di parole dette perché inveterate in una cultura radicata nel tempo che fu e per questo date per scontate. Si tratta certamente di parole che, in quanto tali, si perdono nel vento, ma che molto spesso fanno tanto male all’anima e generano ferite insanabili nelle relazioni umane, tra cui anche quelle che si presumono fondate sull’amore.
Non c’è dubbio che il lavoro maggiore debba essere di tipo culturale: se le donne possono votare solo dal 1945 alle amministrative e dal 1946 alle nazionali; se fino al 1963, ufficialmente, le donne potevano essere legittimamente licenziate per il fatto di convolare a nozze o decidere di diventare madri; se solo nel 1968 è stato abolito il reato di adulterio e nel 1981 il delitto d’onore con il matrimonio riparatore; se tutto ciò era possibile un tempo e oggi ce lo lasciamo alle spase è perché il processo di emancipazione civile innescato dalla cultura, anche quella convintamente e politicamente femminista, ha portato ad un vistoso allargamento della base dei diritti formali.
E proprio nel solco del riconoscimento dei diritti formali e della tutela della donna, circostanze che le hanno consentito di uscire da una decennale, per non dire millenaria, storia di assoggettamento paternalistico e maschilistico, non si può non considerare come una pietra miliare nella giurisprudenza e nella cultura italiana la Legge 19 luglio 2019, n. 69 (nota come Codice Rosso), con la quale la Repubblica Italiana tutela le donne e i soggetti deboli che subiscono violenze per atti persecutori e maltrattamenti.
Tuttavia, di fronte al fatto che la Legge n. 69/2019 non abbia sortito i risultati sperati, ci si accorge che molto ancora va fatto sul versante dei diritti sostanziali e delle riprovazioni morali, fuori e dentro le relazioni familiari, affinché sia definitivamente abbandonato il pregiudizio atavico e retrogrado sui livelli di partecipazione e accesso della donna a qualsiasi tipo di attività lavorativa e di utilità sociale, che non sia solo quella di fare la mamma, la moglie e la donna di casa.
È impressionante constatare, con le autrici del libro in questione, quante distorsioni culturali ed emotive possano inficiare la felicità di coppia. È assurdo venire a sapere, anche attraverso le narrazioni cliniche che corredano il volume, quanto siano determinanti l’ipoteca culturale e il retaggio familiare che permettono a determinate persone di ricadere negli stessi errori.
Ciò che sorprende di questo lavoro, inoltre, è l’equidistanza tipica di professionisti ed esperti seri, ciò che manca in questi tempi pandemici e belligeranti che, invece, spingono a schierarsi pro o contro. Nelle storie d’amore tossico, come anche nelle guerre, ci sono, indubbiamente, vittime e carnefici, almeno in relazione agli effetti che tocca poi constatare. Tuttavia: «L’intento del clinico non è quello di demonizzare il dominatore né di beatificare la vittima. Entrambi sono frutto di una dimensione relazionale che va indagata partendo dalla loro infanzia. Nessuno è mai completamente vittima e nessuno è totalmente carnefice»[1].
È, allora, con l’aiuto del professionista clinico che scopriamo come nel passato esistenziale e culturale di soggetti maltrattanti vi siano storie di ambivalenze, denigrazioni, rifiuti ed è sempre con il supporto di esperti professionisti che scopriamo quanto sia importante cominciare a parlare liberamente e serenamente di educazione all’amore e alla sessualità già nelle scuole primarie.
Solo un’adeguata consapevolezza, che deriva anche dallo scambio di opinioni e di esperienze, può consentire di aggiungere altri tasselli verso il processo civile di emancipazione dei soggetti fragili maltrattati, ma, al tempo stesso, anche verso il processo culturale di liberazione dei soggetti maltrattanti.
[1] C. Strocchi, M. Guerra, M. Lovito, Se lo conosci lo eviti, Edizioni Controcorrente, Napoli 2022, pp. 22-23.
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a cura di Michele Lucivero
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