Il tema, fortemente divisivo, della separazione delle carriere tra magistrati (giudicanti e requirenti) è di stretta attualità, ancorché sia storicamente sorto all’indomani dell’entrata in vigore della riforma del codice di procedura penale c.d. Vassalli del 1989, che ha trasformato il nostro sistema processuale da inquisitorio in accusatorio.
Per meglio comprenderne i contenuti, è opportuno premettere qualche spiegazione sui due modelli di processo succedutisi in allora, inquisitorio e accusatorio: il primo era connotato dall’esistenza della figura centrale, oggi eliminata, del c.d. giudice istruttore, che presiedeva alla fase preliminare del processo, raccoglieva le prove e poteva avvalersi della polizia giudiziaria; e se, al termine della fase preliminare, riteneva che l’indagato fosse innocente, lo stesso giudice istruttore (che svolgeva, così, funzioni anche di giudicante) lo proscioglieva; diversamente, ne disponeva il rinvio a giudizio, dando, così, avvio ad una fase processuale davanti ad un giudice diverso.
Il secondo modello, accusatorio, è, appunto, sorto con la riforma del 1989, che, eliminato il ruolo del giudice istruttore, ha previsto che competano al pubblico ministero l’esercizio della dell’azione penale, lo svolgimento delle indagini (con l’ausilio della polizia giudiziaria) e la rappresentanza della pubblica accusa nel processo; e, nella fase delle indagini, gli atti del pubblico ministero devono essere autorizzati dal giudice per le indagini preliminare, mentre il dibattimento deve svolgersi davanti ad un altro giudice.
Il nodo del problema è che il pubblico ministero, proprio perché svolge un ruolo accusatorio nel processo (sull’esempio, in senso lato, di quello anglosassone), ne diventa parte, come l’imputato. E, quindi, si vorrebbe eliminare l’apparente anomalia consistente nel fatto che, nonostante questa netta contrapposizione di ruoli (non solo di funzioni) nel processo penale italiano, l’esame di ingresso alla carriera dei magistrati (giudicanti e requirenti) è unico, così come sono unici l’ordine giudiziario e l’organo di autogoverno; inoltre, i vincitori dell’unico concorso possono, indifferentemente, scegliere di diventare pubblici ministeri o giudici, cioè requirenti o giudicanti e, nel corso della carriera, possono passare dall’ uno all’altro ruolo. In tutto questo, i sostenitori della separazione ravvisano una contiguità tra giudici e pubblici ministeri che renderebbe i primi non imparziali nel giudizio e che violerebbe la parità delle parti (proprio perché –ripeto- dopo la riforma c.d. Vassalli del 1989 il pubblico ministero, accusatore, è diventato “parte” nel processo penale). Insomma, l’appartenenza alla stessa carriera avrebbe creato, in concreto, una situazione di vicinanza tra giudicanti e requirenti che finirebbe per favorire una naturale propensione dei giudici a prestare maggiore attenzione alle tesi dell’accusa, proprio perché rappresentata da colleghi in carriera: dunque, un condizionamento nei loro confronti.
La tesi contraria, storicamente sostenuta soprattutto dalla magistratura associata, nega la sussistenza dei presupposti di condizionamento nell’esercizio delle funzioni giudicanti e afferma, in estrema sintesi, che l’opportunità di una carriera unica per giudici e pubblici ministeri deriva soprattutto dal fatto che anche i secondi, in quanto appartenenti ad una parte pubblica, hanno, comunque, l’obbligo di ricercare la verità processuale e non, a tutti i costi, quella della sola ”accusa”, che pure essi rappresentano.
Si afferma, inoltre, che isolando la carriera del pubblico ministero e separandolo da quella del giudice, si verrebbe a creare “un inedito potere: quello dei magistrati inquirenti, che verrebbe, nei fatti, attratto dal potere esecutivo fino a fargli perdere la necessaria indipendenza” .
Questi, in buona sostanza e in estrema sintesi, sono gli argomenti a sostegno delle due contrapposte tesi.
Personalmente, non sono molto convinto della fondatezza dell’affermazione secondo cui il pubblico ministero, se separato in carriera dal giudicante, debba poi inevitabilmente rientrare nell’orbita del potere esecutivo. Non credo, cioè, che la separazione delle carriere dei magistrati equivalga, tout court, alla sottoposizione dei PM alle dipendenze del potere esecutivo e comporti, per ciò stesso, il rischio dell’insorgenza di una delegittimazione pregiudiziale dei giudici e non condivido, su questo piano, le preoccupazioni degli ex colleghi ed eccellenti magistrati, Armando Spataro, Giancarlo Caselli ed altri.
Credo, invece, che, se si vuole davvero procedere alla separazione delle carriere, ben si potrebbe crearne una (quella dei PM) autonoma ed essa pure indipendente; perché mai costoro dovrebbero necessariamente e ineludibilmente soggiacere al potere esecutivo?
Non nego di avere cambiato idea rispetto ai miei convincimenti di quando svolgevo le funzioni giurisdizionali. Ma io ho cominciato a svolgerle quando i magistrati pensavano che le correnti, che allora cominciavano a formarsi, fossero solo positivi strumenti di confronto (culturale, ma anche tecnico) fra colleghi per affrontare, insieme e in modo possibilmente omogeneo, i tanti problemi che la società di quei tempi (metà degli anni ’60) esprimeva. Nessuno avrebbe potuto immaginare la deriva del correntismo e del sistema clientelare che ne sarebbe conseguita; e neppure si poteva pensare che proprio la categoria dei requirenti avrebbe espresso un tasso così elevato di politicità, affinando una particolare attenzione per il richiamo della politica, degli incarichi fuori ruolo, delle cariche associative … La continua visibilità, contrastante con il silente lavoro dei giudicanti, non è più coerente con il sistema giudiziario pensato dai Costituenti: non a caso hanno, poi, preso forma personaggi come Palamara (ma, certo, non solo lui), figli di un correntismo sfrenato, che, all’epoca del mio ingresso in magistratura, non era neppure pensabile.
Non si dimentichi che Palamara è stato nominato presidente dell’ANM all’unanimità dei votanti ed è stato, poi, nominato consigliere del CSM con un larghissimo consenso.
E neppure si deve dimenticare che lo stesso correntismo è stato il presupposto per la creazione di altre gravi patologie, come quella della Scuola di Magistratura, oggi totalmente nelle mani delle correnti, che formano a loro somiglianza i giovani, cooptati nel sistema già da uditori, cioè da vincitori di concorso, non ancora destinatari delle funzioni giurisdizionali; scuola i cui docenti spesso non sono altro che esponenti delle correnti stesse. E questo è ormai un percorso consolidato previsto per essere, poi, lanciati nelle elezioni. Vengono organizzate (sempre con il monopolio correntizio) iniziative di carattere più politico che didattico, prive di qualsiasi utilità culturale per i partecipanti ai corsi: basterebbe andare a controllarne gli argomenti…
E tutto ciò non è forse un’anomalia rispetto al sistema giudiziario pensato dai Costituenti? E se questo è vero, non è dato di capire il significato dell’ingenuo richiamo di Giancarlo Caselli ai valori costituzionali, che imporrebbero il permanere dell’ ”unità della cultura della giurisdizione” e, con essa, l’indivisibilità delle carriere dei magistrati.
E, se il PM è ormai una parte nel processo penale, tanto vale impedire che si protragga ulteriormente un’ipocrisia (quella dell’unità delle loro carriere) che si consuma da anni.