A fronte del ricatto di Renzi – perché palesemente di questo si tratta – l’istinto sarebbe quello di dare corso al sogno di Padellaro o almeno di assistere al replay della scena indimenticabile cui assistemmo nell’aula del Senato quando Conte sbugiardò e schiaffeggiò Salvini. Non escludo che ci si arrivi. Troppo manifesti sono cinismo e strumentalità. Cinismo da giocatore d’azzardo: Renzi fa conto che, in caso di crisi del governo, non si vada ad elezioni. Come altrimenti potrebbe portarsi appresso la pattuglia di transfughi da lui sottratta al Pd? Strumentalità testimoniata da ultimo dalla lettera al premier in diciannove punti (si dice se ne sia aggiunto un ventesimo: vedi un po’, la Rai!) con in testa il Mes. Diciannove, non tre, quattro, cinque significativi. Ripeto: sarebbe da mandare a quel paese e chiuderla lì, se non fosse in gioco la sorte degli italiani dentro il tornante più drammatico della storia dal dopoguerra.
Dunque, ha fatto bene Conte a convocare i partiti di maggioranza, ad aprire un tavolo sul principale dei dossier, quello del Recovery. Cioè a dare prova di senso di responsabilità anche per porre rimedio all’irresponsabilità di altri. Così da sgombrare il campo dagli alibi, da smascherare la strumentalità dei diktat renziani, da fugare l’ambiguità e le esitazioni del Pd o di una parte di esso, da mettere uno stop alle convulsioni di un M5S dall’identità irrisolta.
In democrazia la forma è sostanza. È giusto esperire tutti i passaggi politici e istituzionali in pubblico. In modo che i cittadini possano giudicare. Se crisi ha da essere, è bene che essa corrisponda ai canoni della democrazia parlamentare. Alla stretta finale con premier e governo che, alle Camere, si sottopongano a un voto di fiducia, nel quale ciascuno si assuma le proprie responsabilità, come usa dire, mettendoci la faccia. Partiti e singoli parlamentari.
Difficile non evocare il caso dei governi Prodi. Tra i pochi caduti in parlamento. Egli, nel suo secondo governo, resistendo a pressioni alte dello stesso Napolitano, fu irremovibile, volle che la sfiducia, ampiamente annunciata, fosse certificata in parlamento. Mi piace ricordare che, tra i più determinati a pretenderlo, fu Padoa Schioppa, ministro dell’economia. Per rispetto della Costituzione, dell’istituzione parlamentare e anche di se stessi. In modo che, come accennato, i cittadini si facessero un’opinione sui comportamenti politici di ciascun soggetto.
Non è fuori luogo il paragone con i giorni nostri: un premier non iscritto ad alcun partito minacciato di sfiducia da frazioni minoritarie della sua maggioranza che esercitano un potere di ricatto. Più che Bertinotti, l’analogia è con Mastella. Sostenuto dal tifo della destra, cui aggiunse i suoi decisivi voti. Ha detto bene Calenda: Renzi emulo di Mastella che si atteggia ad Obama. Utile sarebbero chiarezza e determinazione da parte del Pd – anche qui è istintivo il paragone con l’ambiguità dei Ds al tempo della caduta del primo governo Prodi cui subentrò D’Alema – nel non dare mezza sponda agli attacchi strumentali di Italia Viva e nel mostrarsi coeso e risoluto – non per finta, non tatticamente – nel prospettare le elezioni come la sola soluzione a valle di una sfiducia al Conte 2.
Elezioni concepite come una sorta di referendum, una competizione tra due schieramenti rispettivamente capeggiati da Conte e Salvini, centrodestra sovranista versus centrosinistra europeista imperniato sull’asse Pd-M5S. Un’alternativa chiara e inequivoca che priverebbe di argomenti (e di voti) i terzisti e soprattutto i taglieggiatori specialisti nello sfruttamento della propria micro-rendita di posizione. A cominciare dagli irresponsabili che ci facessero precipitare dentro una crisi al buio. Anche con la brutta legge elettorale vigente, ne sono convinto, la partita sarebbe aperta. A condizione che chi non vuole la crisi tenga una linea di comportamento trasparente, ferma e lineare.
Una sfida elettorale che, nel caso, prendesse il via appunto con una ritualizzazione schietta e solenne della crisi in Parlamento al modo di quella che, nell’agosto 2019, vide protagonisti Conte e Salvini. Un incipit che gioverebbe a chiarire le responsabilità e a impostare un confronto elettorale nel quale risulterebbe chiara la posta in gioco.
di Franco Monaco, da Il Fatto Quotidiano