“È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi” (Gv 16,7). Gesù, alla vigilia della sua uccisione, parla dell’invio dello Spirito santo agli amici radunati per la cena d’addio. Verrà, ma perché questo avvenga Lui li deve lasciare.
È necessaria un’assenza, per essere abitati da una presenza? L’esperienza amorosa direbbe di sì, come attesta questo verso del poeta Rilke: “Il tuo non esserci è caldo di te / ed è più vero del tuo mancarmi”. Che sia così anche per la fede?
L’assenza, dramma e invocazione
La pandemia ha fatto sperimentare molteplici assenze. Anzitutto l’assenza di quella libertà, che rende possibile andare dove si vuole e come si vuole. Chiusi in casa, uscite contingentate, bardati di mascherine e guanti, a debita distanza gli uni dagli altri.
L’assenza dei propri cari, dei parenti, degli amici, impossibilitati ad andare a trovarli e, quando i mezzi lo consentono, sentiti al telefono o visti su uno schermo, ma senza baci, abbracci, strette di mano.
L’assenza delle celebrazioni liturgiche in chiesa, insieme alla comunità, negli appuntamenti che ritmano la vita dei cristiani.
L’assenza di qualcuno di casa accanto al malato, pur seguito da medici e infermieri encomiabili, fino alla solitudine estrema della morte e di un funerale senza possibilità di vedere la persona amata e di pregare insieme per lei. Autentici drammi si sono consumati, spesso nel silenzio. Eppure da queste assenze è emerso un desiderio del cuore, che si è fatto invocazione magari muta.
Se l’assenza è vuoto, non possiamo portarne il peso. Come dice il verso di Rilke, deve almeno essere calda di ciò che ci manca e quindi lo chiediamo dal profondo. Una nuova libertà, che non sia fare ciò che si vuole, ma essere responsabili di noi, degli altri, di madre terra. Relazioni più autentiche, che si aprano all’incontro, vincendo paure e rifiuti. Parole e gesti di fede, che non si risolvano in pratiche religiose scontate, ma sperimentino il dono di una presenza attesa e richiesta con preghiera unanime: “Vieni, Spirito santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”.
Il volto discreto di Dio
La discesa dello Spirito, nel racconto di Pentecoste, è accompagnata da segni forti: “Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano” (At 2,2). E poi il fuoco, secondo le modalità bibliche di indicare il rivelarsi di Dio.
Non meraviglia che, nel corso del tempo e talvolta anche oggi, si siano lette le calamità come irruzioni tremende della potenza distruttrice di un Dio castigatore. In realtà, nella modalità di farsi Spirito, soffio, alito di vita, si dona a noi un Dio dal volto sommamente discreto. È appunto come l’aria che respiriamo, vi siamo immersi, ma non ce ne accorgiamo se non quando viene a mancarci.
Le narrazioni di quanti sono stati tra la vita e la morte, intubati nelle terapie intensive, hanno fatto percepire cosa comporti la sensazione di non farcela a respirare.
L’aria si dona gratuitamente, non chiede il contraccambio, non pone condizioni. Liberamente spira, “sui cattivi e sui buoni, sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45) e nessuno può impossessarsene, anche se chiese e persone religiose hanno talvolta pensato di averne il monopolio.
Quanto abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo richiede che quest’anno ci sia una pentecoste simile al “sussurro di una brezza leggera” (1Re 19,12), per imparare la stessa discrezione che lo Spirito santo ha nei nostri confronti. Discrezione nei rapporti tra di noi, per far prevalere delicatezza e tenerezza sull’astio e il risentimento. Discrezione nella relazione con il creato, casa comune da custodire, non da sfruttare e depredare. Discrezione nell’esprimere la nostra fede, che non ha bisogno di mostrarsi potere alla pari di altri, e anche quando non può mettersi a tavola per spezzare il Pane dell’eucaristia, può sempre curvarsi a lavare i piedi.
In uscita
“Mentre, per paura, erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli, venne Gesù. Soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito santo” (Gv 20,19.22).
Vorremmo che il dono dello Spirito, in questa pentecoste, fosse davvero capace di vincere la paura e aprire le porte in uscita; non solo per la fase 2, ma per la 3 e 4, fino ad essere liberi da ogni contagio!
Purtroppo non solo dobbiamo ancora andare cauti, ma per troppi le porte rimangono sprangate: chi è senza lavoro, quanti sperimentano fragilità fisiche o psichiche, persone in territori di guerra, profughi chiusi nei campi, popolazioni colpite da carestia e fame.
Continuiamo a dircelo, che non sarà possibile uscirne come prima. Abbiamo bisogno del soffio dello Spirito, che nella pagina di Giovanni è evocazione dell’alito di vita immesso dal Creatore nell’essere umano appena impastato dalla terra, affinché avvenga un’uscita in novità: “Mandi il tuo Spirito, Signore, e rinnovi la faccia della terra” (Sal 103,30). Alcuni tra coloro, che vedono l’uscita dei discepoli e ne sentono l’annuncio, la prendono in ridere: “Si sono ubriacati di vino dolce” (At 2,13). Tanti ragazzi, alla prima uscita, si sono ammassati nei luoghi di ritrovo a bere insieme, senza pensare al rischio che si corre. I Padri della chiesa parlano della sobria ebrezza dello Spirito, che possiamo riferire al vino nuovo del vangelo, che richiede otri nuovi per contenerlo. Un dono grande da invocare in questa pentecoste è che possiamo vivere un’uscita dove si festeggia sì, ma non per dimenticare e riprendere tutto come se niente fosse, dallo spritz in piazza alle messe in chiesa. Per progettare insieme otri nuovi, che accolgano la dolcezza di una bevanda, capace di colmare la sete di vita per tutti.