La pubblicazione dell’articolo di Mario D’Angelo, docente del Liceo “Corradini” di Thiene (VI) (balzato all’onore delle cronache per le esternazioni dell’assessore Elena Donazzan, ndr) sulla necessità di discutere con gli alunni e le alunne dei diritti LGBT ha suscitato un interesse particolare, anche tra le persone che hanno lasciato stimolanti commenti sui social network.
In particolare, ci ha colpito il commento di una persona che si dichiara lesbica e che ritiene importante che ci sia un modo diverso di narrare le cose rispetto a come le accettiamo nella migliore forma politica possibile, parafrasando liberamente Churchill, cioè quella liberal-democratica.
La signora afferma: «in una società capitalistica un professore di filosofia è una creatura inutile e superflua. Non per questo smetto di parlare del tema “cosa fa e a cosa serve un professore di filosofia” perché il tema risulta risibile o fastidioso o inutile a molti. È invece importante “far uscire dalla finestra” il mio interlocutore/trice, fargli vedere quali sono i valori e gli schemi che ha interiorizzato in modo automatico fin dall’infanzia e poi, dall’alto della nuova consapevolezza, trarrà le conclusioni personali che preferisce».
A nostro avviso la pregnanza di questa posizione non può non prendere le mosse da quella che è la condizione esistenziale e politica (biopolitica) della persona che la esplicita, vale a dire quella di una persona discriminata. Davanti a questa condizione di esclusione a motivo del proprio orientamento sessuale, come anche della propria provenienza, dell’aspetto fisico, della disabilità nel poter essere integrato adeguatamene in una comunità, l’accettazione degli schemi proposti dalla società liberal-democratica, che si regge sul principio di maggioranza, stenta ad essere condivisa pienamente, ma necessita di un surplus di impegno politico di parte, che potremmo anche provvisoriamente definire propaganda.
Lo schema d’interpretazione che propone la nostra lettrice, sostenitrice in prima persona dei diritti LGBTQ, si fonda sul presupposto, che è anche quello di molte femministe più impegnate, secondo il quale l’universo simbolico in cui affonda la conoscenza della maggioranza, capitalistica o liberal-democratica, è una narrazione funzionale al mantenimento di quella costruzione sociale, che non consente fino in fondo di comprendere la situazione in cui si trova chi subisce costantemente discriminazioni a causa del proprio essere o apparire.
Appare, insomma, piuttosto facile da “liberati”, cioè nella condizione di chi si trova a godere formalmente e materialmente dei diritti di cui gode la maggioranza, poter essere liberal-democratici, e al tempo stesso impegnarsi a rinforzare nei gangli delle istituzioni quell’assetto politico conforme alle regole scritte per la maggioranza, compresa l’affermazione generica dei diritti e del rispetto per l’essere umano. Invece, se sei una minoranza discriminata, come può essere un migrante, un disabile, una coppia lesbica con una figlia, alla quale viene detto che «la sua sola esistenza può mettere in imbarazzo qualcun altro», allora si sente più forte la necessità politica ed emotiva di sovvertire le regole di una concezione di liberalismo che va bene per la maggioranza, ma non per i discriminati.
A livello teorico, questo modello blando di liberalismo, di stampo grossomodo anglosassone, appare, dunque, così insensibile ai condizionamenti sociali che costruiscono un determinato modello culturale al punto che rischia di poter convivere e tollerare tranquillamente anche forme di discriminazione, cavandosela politicamente con un pacato appello all’autonomia dei soggetti, affinché possano raggiungere da soli il livello di benessere che spetta ai più.
Sembra, invece, più difficile dal punto di vista di un soggetto discriminato accettare l’idea che la politica possa essere un campo neutro, giacché anche la moderazione e la tolleranza, perlopiù intesa come sopportazione, non è che una scelta di parte, che tende ad escludere, peraltro, le posizioni più radicali, perché discriminate e minoritarie, dal dibattito pubblico.
Sembra, quindi, che l’affermazione del diritto di esistenza e di manifestazione delle persone LGBTQ sia una necessità culturale che deriva dalla consapevolezza di una parte di sostenere un principio politico di inclusione che altri negano. Allora, o l’affermazione dell’inclusione è di parte in un contesto politico in cui altri sono per l’esclusione e, di conseguenza, bisogna conquistare terreno politico mediante una diversa narrazione, che è propaganda politica, anche spudoratamente elettorale, oppure bisogna affermare che la nostra posizione inclusiva è essa stessa la politica, mentre quella che punta all’esclusione sociale non lo è e con costoro noi, che facciamo nobilmente politica, non ci vogliamo parlare!
A ben vedere, il regime liberal-democratico convive, senza combatterle minimamente, con una serie di situazioni che comportano gravi discriminazioni, come le disuguaglianze economiche, sociali, culturali, etniche. Di fatto, in molte situazioni di disagio è difficile che i soggetti possano autonomamente accedere ad una liberazione e comprendere il significato dei valori liberali, giacché in quelle circostanze è in atto un meccanismo di riproduzione del disagio in tutte le sue forme.
Ecco che allora la differenza politica di parte sta piuttosto nell’affermazione impegnata dei processi di liberazione, necessariamente più radicali, perché devono scontrarsi contro situazioni sociali e culturali tese alla conservazione di determinati privilegi, che sono poi quei sedimenti liberali incardinati in sedicenti democrazie in cui, nella loro enorme varietà, esistono anche concrezioni reazionarie, assolutamente tollerate e impunemente ammesse al pubblico dibattito, talvolta ridicolizzate come folkloristiche, salvo poi meravigliarci quando alle tornate elettorali ottengono la maggioranza…e così la storia si ripete incessantemente!
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a cura di Michele Lucivero
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