Siria, piegata dal conflitto e dal rischio Covid-19

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Sono passati nove anni dall’inizio della guerra in Siria. Quasi mezzo milione di morti, senza contare i feriti, sei milioni di sfollati interni e quasi altrettanti profughi fuggiti dal Paese. Combattimenti ancora in corso, una terra martoriata dal conflitto, infrastrutture al collasso, diritti umani per lo più inesistenti e ora anche il coronavirus. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità un focolaio epidemico su vasta scala potrebbe avere degli effetti catastrofici per la Siria, dove dal 2011 a oggi oltre la metà degli ospedali è stata distrutta e il 70% del personale medico e paramedico o è morto o ha lasciato il Paese. Se l’epidemia dovesse diffondersi nella regione di Idlib – ultima roccaforte dei gruppi antigovernativi dove il conflitto è ancora vivo – o nei campi profughi sarebbe impossibile fermarla in quanto il sovraffollamento è tale da rendere impensabili le misure di distanziamento sociale per contenere il contagio. Secondo il governo, che dal 13 marzo ha imposto il lockdown, in Siria si registrano 9 casi di Covid-19 anche se fonti locali parlano di numeri ben più alti. Con il rischio dell’emergenza coronavirus e con quasi dieci anni di guerra (quella vera) alle spalle non c’è pace per la Siria e nel suo futuro non pare esserci una risoluzione positiva.

Di questo ne è convinto anche Abdullah Alhallak. Scrittore e giornalista siriano di Salamiyya (nel governatorato di Hama), oggi vive a Milano dopo essere arrivato in Italia quasi 4 anni fa grazie ai corridoi umanitari realizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, la federazione delle Chiese Evangeliche, la Tavola Valdese e la Cei-Caritas. «Anche se spero in un domani sereno per il mio Paese non so dire come sarà la Siria nei prossimi anni. Il sogno di un Paese più giusto che ha mosso le sollevazioni popolari del 2011 non c’è più.

Abdullah Alhallak, scrittore e giornalista

Le evoluzioni che ha avuto il conflitto siriano sono molteplici e complesse. Quello che è certo è che tutto è cominciato come una mobilitazione civile e pacifica per chiedere un’apertura democratica del Paese, ma da parte di Bashar al-Assad la repressione è stata durissima – dice Alhallak -. All’origine di ciò che sono stati questi nove anni di guerra c’è la condotta del regime nei confronti della popolazione e, oggi, siamo ancora qui a parlare di Idlib, dove infuriano i combattimenti e nelle ultime settimane quasi un milione di persone è stata costretta a fuggire dalle proprie case » .

L’impegno in Siria di Abdullah Alhallak come giornalista e attivista gli ha creato non pochi problemi, tanto che nel 2012 è stato costretto a trasferirsi in Libano. «L’unico modo per continuare a fare il mio lavoro e non mettere a rischio la mia incolumità e quella della mia famiglia era andarmene – dice -. In Sira il giornalismo è sottoposto a una censura estrema, tutti i giornali sono controllati dal regime e i giornalisti temono per la loro vita. Dal Libano, dove mi ha raggiunto anche mia moglie, ho potuto continuare alle stampe alcuni libri». Fino al 2016 quando, attraverso il progetto dei corridoi umanitari, è arrivato in Italia. «All’inizio non è stato semplice, ma Milano mi ha accolto e grazie alle persone che mi son state vicine sono riuscito a ricominciare» racconta Alhallak che anche dall’Italia continua a collaborare con diverse testate non solo del mondo arabo.

Sempre da Milano è riuscito a pubblicare il libro “Un vulcano chiamato Siria” (edito da Jouvence): una panoramica sulla rivoluzione siriana dalle prime proteste represse nel sangue da Bashar al-Assad fino al terribile conflitto che oggi vede il Paese al centro di giochi di potere regionali e internazionali.

«È importante far capire come si è arrivati alla rivoluzione popolare del 2011 mettendo in luce l’attività dell’opposizione democratica che ha portato alla primavera di Damasco del 2000» precisa Alhallak. E, infatti, nel suo libro analizza l’atteggiamento del regime raccogliendo le testimonianze degli attivisti della sua città, Salamiyya, ed esamina come sia stato proprio il regime a giocare la carta dello jihadismo per salvarsi. «Dare voce al mio Paese attraverso la parola scritta è l’unico modo con cui ora posso continuare il mio impegno e la mia resistenza civile nella speranza di una Siria diversa da quella che è ora» conclude Alhallak.